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mercoledì 6 aprile 2011

Non lasciarmi

Non lasciarmi (2011)


Regia: Mark Romanek
Soggetto: Kazuo Ishiguro
Sceneggiatura: Alex Garland
Carey Mulligan: Kathy
Andrew Garfield: Tommy
Keira Knightley: Ruth
Sally Hawkins: Miss Lucy
Charlotte Rampling: Miss Emily



Il terzo lungometraggio del regista Mark Romanek è tratto dal romanzo “Never Let Me Go” (2005) di Kazuo Ishiguro, che tratteggia un agghiacciante futuro alternativo dove le persone sono clonate ed “allevate” in speciali strutture al solo scopo di donare gli organi per le persone “normali”.

Una di queste strutture è il collegio Hailsham, dove Kathy (Carey Mulligan), Tommy (Andrew Garfield) e Ruth (Keira Knightley), crescono spensierati insieme agli altri bambini, ovvero sono allevati in vista delle donazioni. I tre crescendo intesseranno un rapporto contorto, un triangolo amoroso del quale sarà Kathy a fare le spese.
I bambini del collegio sono sottoposti a fortissime pressioni: sono indottrinati a non abbandonare mai il collegio, a sottostare all’autorità ed i loro tempi sono scanditi come in una catena di montaggio. Infatti il collegio non è altro che una “fabbrica” di organi, tranne che per un’eccezione: la galleria d’arte, dove è data loro possibilità di esprimersi, nonostante siano carne da macello, nel tentativo vano di dimostrare che anche loro hanno un’anima.

Il tema principale sembra essere apparentemente la mancanza di criteri per stabilire cosa sia a renderci esseri umani, (problematica che troviamo anche nel nostro mondo), in un mondo alternativo dove nemmeno la capacità di amare e di creare arte è presa in considerazione. In realtà ciò che manca nel film è l’umanità stessa. Nonostante sia incentrato su un gruppo di tre persone e analizzi cosa voglia dire avere un’anima, nel film non ci sono esseri umani.

L’assassinio legalizzato si può permettere? È una società malata quella che si permette di rispondere positivamente a questa domanda, una società di cannibali, una società dove la vita ha perso importanza: una società disumana. Ma non c’è più traccia di umanità nemmeno nei piccoli automi di Hailsham: i condizionamenti da loro subiti sono tali da modificare interamente la loro psicologia. Essi obbediscono ancora alle leggi dell’amore, ma non sono davvero umani. Il tempo per loro assume un valore diverso, non sembra scorrere, ed i ragionamenti che facevano da bambini sono gli stessi che fanno da adulti.  Sono le vittime sacrificali della società e sono state addestrate a non sottrarsi a questo ruolo; il loro istinto di autoconservazione si attenua in una pallida speranza di un “rinvio” delle donazioni ed in una pacata rassegnazioneGli umani disumanizzati riescono a farci compassione, e ci lasciamo coinvolgere dalle loro vicende sfortunate e dall’ingiustizia che subiscono, ma non riusciamo a capirli fino in fondo. Il loro arrendersi senza lottare, la loro accettazione quasi passiva del sacrificio è qualcosa al di là della nostra comprensione. In fondo però, sia gli alieni di questa società ipotetica, sia gli umani da allevamento di Hailsham, condividono la miseria della loro vita, l’una annegata ed ubriacata a tal punto nel senso di colpa da non riuscire più distinguerlo, gli altri tristi visitatori di passaggio in un mondo che non è costruito per loro, ma contro di loro e che brama il loro sangue.

Il film è diviso in differenti sezioni, e c’è un fortissimo sbalzo tra la parte iniziale, (l’infanzia felice e ovattata dei bambini), e la seconda parte, dove avviene il contatto con la realtà e la morte annunciata. I personaggi sono incastonati in una sorta di eterno presente, e le atmosfere plumbee e bucoliche, con il paesaggio che diventa lo specchio dell’animo innocente dei cloni, sono accompagnate da una colonna sonora appropriata, che ci trasporta in questo disturbante “what if” dal lento incedere e leggermente melenso, ma che conserva comunque la poesia di una favola amara.

Voto:6/10

Pier Lorenzo Pisano

Marco Fiorillo

martedì 5 aprile 2011

The Ward


The Ward (2011)
Amber Heard: Kristen.
Lyndsy Fonseca: Iris.
Danielle Harris: Sarah.
Mamie Gummer: Emily.
Laura Leigh: Zoey.
Mika Boorem: Alice.
Sydney Sweeney: Alice bambina
Jared Harris: Dr. Stringer.
Regia: John Carpenter.
Sceneggiatura: Michael e Shawn Rasmussen.
Fotografia: Yaron Orbach.
Musiche: John Carpenter, Mark Kilian.
Scenografia: Paul Peters.

Un nostalgico ritorno. Ecco cosa segna “The Ward”, che restituisce John Carpenter al grande schermo, permettendo di ricordare quel cinema horror primordiale ed essenziale, di cui Carpenter è riconosciuto come uno dei maestri. Come soffiando su una vecchia foto impolverata dal passare del tempo, scorgiamo le fisionomie caratteristiche del genere, ripercorrendo le tappe che la “paura” ha percorso nelle ultime decadi di vita.
1966. Tra le campagne dell’Oregon vaga una bellissima ragazza bionda dall’aria alienata e spaurita (Amber Heard). Arrivata ad una vecchia fattoria, le da fuoco, rimanendo ad osservare la scena, mentre due poliziotti accorsi sul posto, la arrestano. La giovane, però, non viene portata in prigione ma in un ospedale psichiatrico. Kristen, così dirà di chiamarsi la donna, prima di essere rinchiusa nel Reparto 19. Conoscerà, così, le altre ragazze ospiti della struttura: Iris (Lyndsy Fonseca), Sarah (Danielle Panabaker), Emily (Mamie Gummer) e Zoey (Laura Leigh). Già scossa dalla pesante reclusione e dall’assenza di memoria circa gli episodi precedenti il suo “arresto”, Kristen verrà subito a conoscenza del misterioso segreto che aleggia nel reparto: un’oscura presenza femminile infesta i corridoi dell’ospedale, tormentandone le pazienti. L’ultima arrivata, conscia della fine che l’attende, tenterà più volte la fuga, senza rendersi conto che il vero nemico non è fatto di materia, ma di sinapsi e neuroni.
La storia, redatta dai semi sconosciuti fratelli Rasmussen, ci propone un intreccio prevedibile, abusato nel passato più recente: lo sbiadito ricordo di un bambino, la difficile ripresa del subconscio, la reclusione in un inquietante manicomio in cui succedono strane cose. Ne abbiamo viste molte così. Ciò che rende la pellicola interessante, è il modo in cui Carpenter vi si rapporta: mette in scena un “thriller psicologico più che un horror”, cercando di realizzare “un film della vecchia scuola fatto da un regista della vecchia scuola”. Sono proprio queste le parole del regista, pronunciate durante la presentazione al Toronto International Film Festival, dal quale il film ritorna con poche critiche positive e il freddo plauso del pubblico, nella cui mente è ancora impresso il passato successo di Carpenter.
Nonostante la trama esile e poco brillante, gli spunti di riflessioni proposti dal film non sono pochi.Primo tra tutti, la riproposizione classica di un genere, l’horror appunto, andato avanti con gli anni, sottoponendosi, nel tempo, a profondi cambiamenti di registro e d’immagine; ha la chioma canuta ma non per questo ha perduto la sua essenza. Lo sa bene un maestro del genere come Carpenter, che costruisce una suspence semplice, senza troppi fronzoli, arrivando direttamente allo spettatore, mantenendo lo stile ed il metodo che lo hanno contraddistinto in anni di paurosi successi. La linea è sempre pulita, limitati sono gli effetti, legati sempre di più al trucco che al digitale; la tensione è creata più dalle atmosfere che da un “nemico” vero e proprio che, al contrario, forse non mette così tanta paura. Sfrutta a pieno l’influenza che la psichiatria, come ricerca e come analisi, ha avuto ed ha sul cinema, ispirandosi a illustri precedenti e cavalcando l’onda del recente successo : combattere contro la proprio mente è diventato un trend sempre più costante cui è difficile apportare novità; in questo caso Carpenter non è supportato, come dicevamo, da una trama avvincente e intricata: l’andamento della narrazione presenta delle spaccature che non ne favoriscono la linearità; nonostante questo, il regista riesce ad infondere quell’atmosfera di tensione, che fa molto horror anni ’70. Mette insieme le conoscenze che porta in bagaglio, le influenze cui è stato sottoposto durante la carriera, ricordando al grande pubblico la “giovinezza della paura”, così come lui l’ha vissuta.
È possibile, inoltre, riconoscere tre linee guida, tutt’altro che originali. Il classico trauma infantile mai sanato, accompagnato dalla creazione di molteplici personalità spesso negative, la voglia di evasione da una realtà oscura ed opprimente, realisticamente rappresentata dalle squallide mura di un istituto d’igiene mentale ma costituita di fatto dalle pareti della proprio mente, si uniscono ad un cast tutto al femminile che non giovano alla novità. Il parallelo più vicino cronologicamente, quel “Sucker Punch” firmato Sneyder, in cui il fattore paura è sostituito da scenografici combattimenti.
A proposito delle “squallide mura”, il film viene girato in un padiglione da tempo abbandonato dell’Eastern State Hospital, tra veri malati e atmosfere tetre e pesanti. Ambientare le scene in un reale ospedale psichiatrico, enfatizza la percezione dell’insano e della paura, dando profondità alla pellicola.
Riprendendo il paragone con “Sucker Punch”, anche per “The Ward” si preferisce un cast totalmente al femminile che non giunge da grandi successi precedenti. La protagonista, Amber Heard, assomma varie partecipazioni di una certa importanza, rimanendo,però, sempre sullo sfondo; è una grande appassionata del genere e, da fan intenditore, dello stesso Carpenter: “C’è molto di John Carpenter in questa storia”, ammette la Heard a riprese terminate. Future promesse, Danielle Parabaker e Mamie Gummer (nome d’arte di Mary Willa Gummer figlia di Meryl Streep e dello scultore Don Gummer) fanno il proprio dovere, come Mika Boorem e Jared Harris. La recitazione compassata, mai sopra le righe, è il frutto della direzione carpenteriana, sempre contraddistinta da questo particolare.
Dopo nove lunghi anni di inattività (almeno sul grande schermo), ritorna uno dei padri del cinema horror. È un ritorno molto atteso, quello di Carpenter, che tradisce le aspettative. Dopo aver firmato capisaldi del genere come “La cosa”, “Essi vivono”, “Halloween”, “The Fog”, e pellicole come “Distretto 13-Le brigate della morte” e “1997, Fuga da New York”, la verve del regista sembra perdersi. Influenzato da maestri come Hitchcock, Bava ed Argento, influenza egli stesso il cinema horror, attribuendosi la paternità di pellicole che hanno indirizzato su binari ben precisi il cinema di genere. Perde il tocco magico già negli anni ’80, quando il plauso della critica e del pubblico comincia a scemare, ma la sua fama sembra non essere destinata ad estinguersi. Questa stessa fama accompagna il suo ritorno; in “The Ward” appunto, infonde se stesso, curando, oltre che la regia, anche la colonna sonora, elemento fondamentale di una pellicola horror: realizza un accompagnamento musicale intenso, che asseconda il clima di tensione e le atmosfere cupe e inquietanti, dimostrando, come aveva già fatto in passato, di sapersi muovere anche tra le sette note.
Dopo un’assenza così lunga dalle scene, probabilmente ci si aspettava qualcosa di più da un acclamato maestro della paura, che tanto ha contribuito ha gettare le basi di questo genere.
VOTO 5/10

Marco Fiorillo
Pier Lorenzo Pisano