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giovedì 28 aprile 2011

Habemus Papam (2011)


Michel Piccoli: Cardinale Melville
Nanni Moretti: psicanalista Brezzi
Margherita Buy: psicanalista
Jerzy Stuhr: portavoce
Renato Scarpa: Cardinale Gregori
Franco Graziosi: Cardinale Bollati
Camillo Milli: Cardinale Pescardona
Renato Nobile: Cardinale Cevasco
Regia: Nanni Moretti
Soggetto: Nanni Moretti, Francesco Piccolo, Federico Pontremoli
Fotografia: Alessandro Pesci
Montaggio: Esmeralda Calabria
Musiche: Franco Piersanti
Scenografie: Paolo Bizzarri

“Habemus Papam” è l’ultimo e controverso film di Nanni Moretti, presente anche a Cannes, che indaga gli effetti che questa frase può avere dal singolare punto di vista di colui che è stato scelto per questo gravoso compito.

Dopo la morte dell’amato pontefice, il nuovo Papa appena eletto (Michel Piccoli) sente di non avere la forza per adempiere il compito di guida della cristianità ed entra in una profonda crisi.
I dubbi si accavallano, ma non riguardano mai la fede, piuttosto la sua stessa persona, i suoi ricordi, i sogni infranti, un miscuglio confuso ed inspiegato che insieme alla tensione gli creano un improvviso, insuperabile, senso di inadeguatezza.

Nanni Moretti è presente nelle vesti dello psicanalista Brezzi, convocato come ultima risorsa per aiutare il Santo Padre ad accettare il suo ruolo. Un personaggio odioso e gratuitamente caustico nei confronti dei cardinali, un tristo sbeffeggiatore frustrato dall’abbandono della moglie ed unico spettatore laico degli eventi.

Tuttavia anche i suoi tentativi saranno vani, ed ogni discorso fatto al Santo Padre sembra scivolargli addosso, avvolto com’è da una cortina impenetrabile di confusione; anzi i vari discorsi a lui rivolti pongono sempre l’accento sulle aspettative di miliardi di persone e sul peso delle responsabilità, allontanandolo e spaventandolo ancora di più.

I vari personaggi non sono mai analizzati attentamente, la vera causa della crisi del pontefice non è chiarita se non marginalmente, il personaggio della ex moglie di Brezzi (Margherita Buy) non ha nemmeno un nome ed ha una caratterizzazione vaga (un pesante strascico del rapporto con l’ex marito, la vergogna del nuovo partner di fronte ai figli). I vari cardinali si distinguono più che altro per le fattezze fisiche, con alcune eccezioni come il cardinal Gregori (Renato Scarpa) ed il cardinale Brummer, una evidente caricatura di papa Ratzinger, ridicolo fin dalla prima inquadratura in cui appare inciampando.

Il film alterna scene corrosive ed umoristiche sui cardinali, mettendoli anche in ridicolo, al mondo alienato ed annebbiato del nuovo Papa che non riesce più a trovare se stesso, perso tra suggestioni teatrali, ricordi di monologhi, in una Roma aliena e sconosciuta ma accogliente. Molto interessante la scena dove si uniscono queste due tendenze: i cardinali battono le mani al tempo di “Todo Cambia” di Mercedes Sosa, e la musica diegetica si confonde con la musica extradiegetica che accompagna il papa, che vaga per le strade come un candido(nell’animo) fantasma, fino ad incontrare un’artista di strada che esegue la stessa canzone. In alcune scene Moretti gioca a fare Fellini, quando il teatro si riempie di cardinali come un’invasione porporata, mentre un folle istrione continua a declamare sul palco: una rottura della quarta parete da parte del pubblico. Sono scene interessanti ma non compiute fino in fondo.

Il finale, molto potente ed evocativo, sottolineato da un requiem incalzante, rappresenta l’inequivocabile morte della Chiesa, l’irrecuperabile perdita di credibilità e di valore dell’istituzione e la fine di un valore stesso. Molto d’effetto, apocalittico almeno quanto il finale de “Il Caimano”, molto famoso in questi giorni.

Avrebbe potuto essere un capolavoro, ma troppe idee rimangono incompiute, inspiegate, abbozzate, e a tratti il film risulta fastidioso, risente forse del peso dell’ego del regista. Moretti “bestemmia” come un ragazzino, per il gusto di farlo, con un film dal sostrato culturale potenzialmente denso ma poco esplorato e tracciato superficialmente, ma che comunque si staglia rispetto alle altre produzioni italiane. Un film sulla confusione, forse giustamente confuso.

VOTO 6/10

Pier Lorenzo Pisano

Marco Fiorillo

World Invasion (2011)

Aaron Eckhart: Serg. Michael Nantz.

Michelle Rodriguez: Ten. Elena Santos.

Ramon Rodriguez: Ten. William Martinez.

Ne-Yo: Caporale Kevin Harris.

Bridget Moynahan: Michele Martinez.

Michael Pena: Joe Rincon.

Lucas Till: Caporale Grayson.

Regia: Jonathan Liebesman.

Sceneggiatura: Chris Bertolini.

Fotografia: Lukas Ettin.

Effetti Speciali: Hydralux.

Musiche: Brian Tyler.

Scenografie: Peter Wenham.

Costumi: Sanja Milkovichays.


L’interminabile guerra tra umani ed alieni per la conquista della Terra si arricchisce di un nuovo capitolo. Una battaglia che non aggiunge niente di nuovo e sembra nascere più per una piattaforma ludica che per il grande schermo. Probabilmente, questa volta perdiamo noi umani comunque.

Il Sergente Nantz, marine d’annata, è ormai prossimo al congedo, a seguito di una sfortunata azione in cui hanno trovato la morte alcuni suoi uomini. Purtroppo la vita da civile deve ancora aspettare: l’ imperversare di una pioggia di meteoriti mette sotto allarme le unità governative americane. Le meteore si rivelano essere astronavi aliene all’attacco del Pianeta Terra. Nantz verrà associato ad un contingente armato, agli ordini del giovane Tenente Martinez, per far fronte all’incursione che avviene sulle coste di Los Angeles, l’unica città a non essere stata ancora distrutta.

La pellicola trae ispirazione dalla cosiddetta “Battaglia di Los Angeles” (conosciuta anche come “Great Los Angeles Air Raid”), episodio bellico consumatosi tra la notte del 24 e la giornata del 25 Febbraio 1942, tre mesi dopo l’ingresso degli Stati Uniti nel Secondo Conflitto Mondiale, a seguito dell’attacco a Pearl Harbour. Ancora misteriosa è la natura dell’evento: si tratta di una controffensiva americana ad un attacco aereo di oscura origine. Secondo alcuni fu la risposta ad una nuova offensiva giapponese, secondo altri si trattò di un falso allarme scatenato dal forte clima di tensione del periodo, una discreta minoranza pensa, invece, che si possa parlare di un attacco alieno alla Terra. “100.000 persone hanno avvistato qualcosa nei cieli sopra Los Angeles”, racconta Bill Birnes, co-autore di “The day after Roswell”, che continua: “Furono sparati oltre 1.400 colpi a vuoto. Rimasero feriti tre civili ma l’oggetto non venne nemmeno scalfito, i proiettili prendevano fuoco non appena si avvicinavano al veicolo. È stata la prima volta che la stampa ha dato un così grande risvolto ad un evento del genere!”. A ciò si aggiunge la testimonianza di Jeff Packman: “Il dato è che solo negli USA, i militari hanno trovato circa 4.000 tracce di atterraggio di veicoli extraterrestri”. Nel 1983, l’ufficio dell’Air Force History concluse che l’attacco fu dovuto a palloni metereologici: “E’ difficile immaginare che non siano riusciti ad abbattere un pallone aerostatico”, conclude il Capitano Robert Salas.

Precedentemente, Steven Spielberg si era liberamente ispirato alla vicenda, al momento della realizzazione di “1941: Allarme a Hollywood”, del 1979.

Instant-movie forte di spettacolari effetti speciali, “World Invasion” si colloca in quell’abusato filone catastrofista che vede la Terra nel mirino degli altri abitanti dell’Universo. Ritroviamo quindi motivi ricorrenti del genere. Il mito del super-soldato americano, evergreen dai tempi del berretto verde Rambo/Stallone, viene riadattato in chiave moderna, perdendone in efficacia e introspezione: seppure volitivo, Aaron Eckhart non sembra si adatti alla parte. Risulta mancante una trama vera e propria, come mancante è una qualsivoglia forma di analisi psicologica dei personaggi: dopo la classica apertura di presentazione del protagonista, gli alieni appaiono dal nulla e, senza spiegazioni di sorta, cominciano gli scontri. Insomma, in mancanza di vera partecipazione da parte del pubblico, il film avrebbe dovuto basarsi su scene di guerra di forte impatto. Così non accade: riprese confusionarie e concetti grafici triti e ritriti fanno rimpiangere capolavori come “Alien” e “Indipendence Day”. Nota positiva, come abbiamo detto in apertura, la qualità degli effetti, curata dalla rinomata Hydralux, che purtroppo da sola non può tirare avanti l’intero baraccone.

L’inizio delle riprese è stato preceduto da tre intense settimane di allenamento militare che hanno coinvolto il cast al completo. Eckhart e Michelle Rodriguez hanno, infatti, raccontato di essersi sottoposti ad una durissima preparazione fisica e tattica, per calarsi pienamente nel ruolo di marines che avrebbero ricoperto.

Con un budget di produzione molto elevato, il film conquista 36 milioni di dollari solo nel primo weekend di programmazione, ricevendo un’ottima accoglienza da parte del pubblico, tant’è che l’intero recupero del capitale è avvenuto in soli tre giorni.

Nonostante il valore epico che sembra si voglia attribuire alla pellicola, l’entourage non sembra dei migliori, a cominciare dal cast. Decisamente fuori ruolo, Aaron Eckhart, che si sforza, vanamente, di dare credibilità al vissuto Tenente Nantz, e, al suo fianco, la Bad-Girl portoricana Michelle Rodriguez, nota ai più per le sue interpretazioni in “The Fast and The Furious” e “Swat”; Ramon Rodriguez, interprete in una piccola parte nel capolavoro “Carlito’s Way”, ha proseguito con piccoli ruoli senza mai brillare in maniera particolare; stesso discorso vale per Bridget Moynahan, che tutti ricorderemo come una delle “Ragazze del Coyote Ugly”, e Michael Pena, memore della recente premiazione al Golden Globe Award per la serie tv “The Shield”. A completare il cast: Lucas Till, che ha affiancato Miley Cyrus nella realizzazione di “Hannah Montana- The movie”, e il cantante statunitense Ne-Yo, che segue la nuova tendenza americana dell’”artista a trecentosessanta gradi”. Proprio il cantante ha affermato: “Nei film di oggi, o si punta all’azione oppure sulla trama, è difficile trovarle insieme. Questo è uno dei pochi film dove ci sono entrambe le cose”; il giudizio poco accurato ci da la misura della relativa preparazione del “gruppo”.

Il tutto è diretto da Jonathan Liebesman, africano di Johannesburg, che ha collezionato negli anni di attività vari cortometraggi e un solo film di “successo”, il prequel della famosa saga incentrata sulle vicende del carnefice Leatherface, “Non aprite quella porta- L’inizio”.

Dietro le cineprese spiccano il compositore Brian Tyler e, soprattutto, i fratelli Strause. Greg e Colin sono, infatti, gli artisti degli effetti speciali che hanno firmato alcune delle pellicole più interessanti degli ultimi anni, tra le quali “300” e “Avatar”, dopo aver raggiunto il successo con il colossal “Titanic”; insieme hanno fondato la società Hydralux e diretto “Alien vs Predator 2” e “Skyline” (concettualmente molto vicino a “World Invasion”, su cui la firma dei fratelli è assolutamente evidente).

Nonostante le poche premesse di partenze, il film non riesce nemmeno nell’intento di mantenere lo spettatore attento per l’intera durata della vicenda, fallendo nell’unico obiettivo che realmente poteva porsi: l’intrattenimento.

VOTO 4/10

Marco Fiorillo

Pier Lorenzo Pisano

Speciale Cineteca: Sidney Lumet






Quinto Potere (1976)

Peter Finch: Howard Beale
Faye Dunaway: Diana Christensen
William Holden: Max Schumacher
Robert Duvall: Frank Hackett
Wesley Addy: Nelson Chaney
Ned Beatty: Arthur Jensen
Beatrice Straight: Louise Schumacher
Jordan Charney: Harry Hunter
Lane Smith: Robert McDonough
Cindy Grover: Caroline Schumacher
Marlene Warfield: Laureen Hobbs
Carolyn Krigbaum: Segretaria di Max
Lee Richardson: Voce narrante


Capolavoro del 1976 di Sidney Lumet, vincitore di un numero spropositato di premi internazionali, “Network” narra della storia di Howard Beale (Peter Finch), presentatore televisivo prossimo al licenziamento, che annuncia in diretta il suo suicidio: questo è il punto di partenza per un’intensa ed allegorica analisi del mezzo televisivo, dei media, del futuro dei mezzi di comunicazione e del loro impatto sulle persone.

L’immaginaria storia della rete televisiva tratteggiata nel film si intreccia con la storia di Howard, mettendo in mostra un sistema totalmente fuori controllo ed in continua evoluzione, una sorta di caos primordiale sanguinario ed alienante dove conta solo la notizia in se, svincolata da qualunque legame con la realtà ed offerta in sacrificio per una divinità terribile e volubile: l’audience. L’informazione non esiste, è solo un’azienda.

Howard nella sua vicenda diventerà un canalizzatore, un personaggio messianico, “un Savonarola dei nostri tempi”, denunciando le ipocrisie della società e dando corpo alla rabbia ed alla frustrazione della gente, criticando il sistema dall’interno.  Ma la Televisione è una macchina spietata e fuori controllo, governata dai media: sono una massa imperscrutabile e caotica dalla quale viene tutto il bene e tutto il male. Tutti si inginocchiano davanti al potere della Televisione, (come gli Ecumenici, spettacolarizzati), perché il potere della diffusione dei contenuti è enorme ed inarrestabile.

Diana Christensen (Faye Dunaway), responsabile dei programmi, è una cinica innovatrice e rappresenta alla perfezione il suo tempo: giudica con entusiasmo il video di una rapina in base al suo possibile valore televisivo e monetizzabile, tralasciando il piano umano. Ha già compreso l’essenza del Network e la piega che sta prendendo e cavalca l’onda con agilità e intuito. Mascolina, col complesso del padre (come ammette lei stessa), ossessionata dal lavoro che coincide con la sua vita e con se stessa: lei è la Televisione incarnata. Da un lato Howard è il profeta delle cause perse e rappresenta un’ipocrisia nell’ipocrisia perché le sue pretese di denuncia sono soltanto sfruttate dal Network per l’audience che ottengono; è una scheggia impazzita ma impotente, ed è in fretta riassorbito all’interno del sistema. La sua vicenda, soprattutto il drammatico finale, rappresenta la consegna del libero arbitrio da parte degli uomini a qualcosa a loro superiore, ad un Dio che essi stessi hanno creato ma che ha alla fine acquistato una autocoscienza.  Dall’alto, Diana vive per la Televisione e la Televisione vive in lei. È la prima Santa della chiesa nascente della comunicazione di massa, è lei la vera profetessa.

Opposto a lei, Max Schumacher (William Holden), superiore di Howard, cacciato dalla chiesa del Network per effetto della scalata al successo di Diana, intesserà con lei stessa una relazione, ma una relazione amorosa dei tempi della Televisione: il loro rapporto è scandito dai cambiamenti della programmazione televisiva e da aggiornamenti sulle nuove trasmissioni, riferiti con voce languida. Diana si esprime solo in termini televisivi, e cosi cerca di stereotipare il loro rapporto entro canoni televisivi. Max conosce il mondo televisivo, ma conosce anche la vita reale, abbastanza da capire che Diana ha stabilito per lui un ruolo ben definito nel suo copione, dal quale vuole sottrarsi.

Frank Hackett (Robert Duvall), rappresentante della UBS, società che ha acquisito il controllo del Network, è un uomo d’affari estremamente pratico. È uno sciacallo, un lupo nel mondo medievale della Televisione, dove tutti si fanno le scarpe a vicenda. Non è addentro nei processi televisivi come Diana, ma ha un grande privilegio: ha un canale diretto con Dio in persona, Arthur Jensen (Ned Beatty), il Presidente della Rete. Un Dio distante, che dà poche indicazioni ai suoi Santi, se non una generica indicazione di mantenere alti gli ascolti, simile ad un “crescete e moltiplicatevi”.

Sono presenti scene molto forti, ad esempio lo slogan urlato alle finestre: ” Sono incazzato nero e tutto questo non lo accetterò più!”. Il profeta Howard lancia il suo messaggio al mondo e l’urlo delle masse obbedienti al suo comando rappresenta la loro disfatta totale. Un apparente grido di libertà, confuso col rumore dei tuoni e dal sapore apocalittico, è la resa dei media al Network: anche la loro rabbia è inscatolata, assorbita nel sistema e spettacolarizzata e ne diventa parte integrante, niente più che uno slogan ripetuto dal pubblico in sala prima dello show televisivo del profeta. La scintilla divina di indipendenza del profeta Howard è massificata: diventa “il pazzo profeta dell’etere”, le sue parole sulla Televisione, “La forza più grande di questo mondo senza Dio”, passano inosservate come le notizie delle morti giornaliere. “La Televisione non è la verità, è un circo” urla Beale, un circo di cui lui stesso ed il suo messaggio fanno parte, e che prospera anche grazie a lui: il pazzo profeta dell’etere è servito come innocuo programma sovversivo della sera; tutto è sotto controllo compreso il suo svenimento “post-sermone”, che strappa sempre un applauso al pubblico quando il profeta cade a terra come un fantoccio. Ed è questo ciò che è, un fantoccio. La Televisione diventa più reale della realtà, ma la Televisione è la realtà impazzita, è una follia di massa.

Un’altra scena è l’incontro tra Howard Bale ed Arthur Jensen, che si svolge nel “paradiso degli eroi”. I due sono opposti, l’uno seduto e l’altro in piedi in penombra. A Beale è fatto dono della visione totale delle cose. Jensen gli rivela il profondo sistema alla base del loro mondo, le vere “forze primordiali” del flusso e del riflusso, delle multinazionali, dei petrodollari, e li oppone alla visione limitata di Beale, ancorata sulle vecchie ideologie nazionali. Jensen fa leva sull’instabilità mentale di Beale e lo plagia riportandolo all’ordine.

Il profeta tuttavia arriverà a rappresentare una contraddizione interna nel sistema, perché rivelare il senso profondamente cinico della vita e la disumanizzazione del mondo moderno, fa calare gli ascolti. Il sistema comincia a fagocitare se stesso: Beale con i suoi messaggi diviene sgradito alle schiere dei Santi, ma non può essere scacciato, non perché protetto dall’aura divina degli ascolti, (e quindi in linea col diktat di Jensen), ma perché Jensen stesso vuole che il suo profeta continui a riferire il suo messaggio.

Contro il volere del Dio Jensen, intrattabile ed adamantino sulla questione Beale, la vicenda si concluderà drammaticamente e a tratti ironicamente, in una composizione ad anello con un finale annunciato (in tutti i sensi) ma disarmante.

Sidney Lumet ritorna su tematiche che aveva precedentemente introdotte, basti pensare a “Quel pomeriggio di un giorno da cani”, dove egli dimostra di aver già intuito le potenzialità della televisione. Il film è in realtà una sorta di storia su un mezzo che sta cambiando il mondo e sul mondo stesso, un’autoanalisi proposta ai media. Howard Beale, offerto sull’altare del nuovo Dio Televisione, è il primo. Ma è sottointeso un angosciante messaggio: non sarà l’ultimo. I titoli di coda con la musica dello show fanno sembrare il tutto un terribile documentario.
È interessante guadare un film del genere, con le sue visioni apocalittiche, e pensare a quanto stiano prendendo forma nel nostro mondo, in soluzioni anche peggiori e più totalizzanti, basti pensare a Facebook, il “Social” Network.

La società dove tutti gli uomini sono solo numeri da indagini di mercato e quindi ugualmente rimpiazzabili, profetizzata da Beale, non è più una distopia lontana, è il nostro mondo, qui e adesso.

VOTO 8/10

Pier Lorenzo Pisano
Marco Fiorillo

Apocalypse Now

Ciclo "Per non dimenticare:" Le grandi collaborazioni




Apocalypse now (1979- Apocalypse now redux 2001)

Martin Sheen: Cap. Benjamin L. Willard.
Marlon Brando: Col. Walter E: Kurtz.
Robert Duvall: Ten. Col. William “Bill” Kilgore.
Dennis Hopper: fotoreporter.
Francis Ford Coppola: regista televisivo.
Vittorio Storaro: operatore tv.
Dean Tavoularis: fonico tv.
Harrison Ford: Coll. Lucas.
Scott Glenn: Cap. Richard M. Colby.
Albert Hall: George Philips.
Sam Bottons: Lance B. Johnson.
Tyrone Miller: Laurence Fishburne.
Frederic Forrest: Jay “Chef” Hicks.
Roman e Giò Coppola: comparse.

Regia: Francis Ford Coppola.
Soggetto: Joseph Conrad.
Sceneggiatura: F. F. Coppola- Michael Herr- John Milius.
Fotografia: Vittorio Storaro.
Musiche: Carmine Coppola- F. F. Coppola- Mickey Hart- The Doors.
Scenografia: Dean Tavoularis- Angelo Graham- George Nelson.

Mettete insieme uno dei registi più grandi del cinema americano, un cast ed uno staff d’eccezione, un capolavoro letterario  e lo scenario crudo del Vietnam sporco di sangue. Avrete un capolavoro senza tempo,un emozionante dramma umano prima che un racconto di guerra, capace di tracciare a chiare linee l’ennesima pagina buia della nostra storia.

“Si sta lasciando andare in attesa di una missione” il Cap. Williard (Martin Sheen). Di ritorno da Saigon, abbandonata la moglie, il soldato sia da all’alcol, incapace di vivere lontano dagli spari e dal napalm, bisognoso di sentirsi di nuovo se stesso su un campo di battaglia. Viene subito accontentato: a rapporto dal Col. Lucas (Harrison Ford), gli viene assegnata una difficile missione sotto copertura. Risalire il corso del fiume Nung, arrivando in Cambogia, dove il Col. Walter Kurtz (Marlon Brando), ex membro dei berretti verdi e aspirante generale, ha abbandonato la ragione divenendo un semi-dio tra la popolazione locale. Willard comincia, così, a bordo di un’imbarcazione della marina, una navigazione giammai tranquilla: incontrerà il Ten. Col. Kilgore (Robert Duvall), strano interprete del conflitto e amante del surf; verrà coinvolto in vari scontri a fuoco, in cui perderanno la vita alcuni membri della “ciurma”; banchetterà con dei soldati francesi, occupanti di una vecchia piantagione. Ma il confine cambogiano è ormai vicino, l’incontro con lo spietato Col. Kurtz inevitabile.

Il film è liberamente ispirato alla fortunatissima opera “Cuore di tenebra” di Joseph Conrad, edita nel 1902. Il libro tratta di un viaggio in Africa compiuto da un certo Marlow, narratore delle vicende, allo scopo di raggiungere la Compagnia, una società che si occupa del contrabbando di avorio; tra i membri di spicco della Compagnia, Kurtz, un uomo molto malato ed in preda alla follia, che, però, impone la propria venerata presenza grazie al suo aspetto imponente e, soprattutto, alla voce. Il romanzo segue due fili conduttori molto precisi: se da una parte imposta una forte critica al colonialismo (non solo americano, ma di tutto il Vecchio Continente), dall’altra si addentra in una profonda analisi sulla natura umana, sulla compresenza di bene e male. Conrad da prova della volontà di onnipotenza dell’uomo occidentale: l’essere moderno si trasforma in un mostro quando nessuna regola, nessuna convenzione impedisce la sua libertà. Come vedremo, Coppola rimarrà fedele al romanzo per le tematiche, con una fondamentale differenza: il Kurtz di Conrad decide di ritornare in patria ma muore di morte naturale durante il viaggio, pronunciando le famose parole “Orrore! Orrore!”: che si sia reso conto degli orrori compiuti e sia in cerca di redenzione?
Per quanto riguarda la pellicola, l’idea originale è di John Milius che, nel 1969, comincia a scrivere una sceneggiatura riguardante un gruppo di soldati che risalgono un fiume in Vietnam. Viene a sapere del progetto George Lucas, che suggerisce l’idea di raccontare di soldati appassionati di surf. Nello stesso periodo, Carroll Ballard, amico di Milius, Lucas e dello stesso Coppola, ipotizza la realizzazione di un film tratto da “Cuore di tenebra”.
Milius decide, allora, di accorpare i progetti, ma nel 1975 sia lui che Lucas si dedicano ad altri lavori. L’idea, rimasta orfana, trova il vero padre in Coppola che riprende la sceneggiatura con Michael Herr, ex corrispondente dal Vietnam ed autore di “Dispacci”, definito “Il più bel libro sul Vietnam”.
Nonostante l’impegno iniziale, Coppola comincia le riprese senza una sceneggiatura definitiva: completava e rifiniva la storia con l’avanzare della realizzazione.
Ad una prima versione, del 1979, segue un “restauro” della pellicola, presentato fuori concorso al Festival del Cinema di Cannes, in cui vengono aggiunti 53 min. e viene proposto un nuovo montaggio, arricchito da scene scartate inizialmente e da un finale leggermente diverso; nella versione italiana, viene riproposto anche il doppiaggio, che impreziosisce un’opera che non sembra mancante in nessun frangente.

Coppola unisce l’azione di guerra all’analisi psicologica con estrema maestria. L’esaltazione in chiave antimilitarista del belligerante mito americano (che non resterà impunita da parte del governo), si innesta perfettamente in quel clima di dissenso che accompagnava la campagna in Vietnam, dagli esiti sempre più disastrosi. La guerra alberga nel cuore del protagonista come in quello del suo antagonista, che incarna l’immedesimazione totale dell’uomo nel soldato, dell’animale nella sua tana: “Magari è in una fabbrica dell’Hoio che voi riuscireste a trovare voi stessi”afferma Willard/Sheen riferendosi ai compagni di viaggio, ma non lui che ha costruito la sua casa con fucili e munizioni. Ma purtroppo chi vive di guerra, se la porta anche dentro: la luce e le ombre combattono duramente li dove “le cose si confondono, il potere, gli ideali”. “Non è detto che vinca sempre il bene”, viene recitato nella pellicola ed è forse questa la vera essenza del girato che trova la sua affermazione quando, al momento dell’uccisione di Kurtz, Willard viene acclamato come il nuovo “Dio”: il male è sostituito da un nuovo male, come se trasformazione e disfatta si potessero inseguire per sempre.
In un viaggio che rappresenta quel percorso verso la scoperta della vera natura, costellato di esperienze che già ne mettono in luce le pieghe, l’uso degli strumenti narrativi risulta perfetto: una fotografia poetica, i dialoghi, le musiche, le scenografie rendono vivo il dramma, facendocene partecipi non solo come spettatori.

Molteplici le curiosità per i cinefili più voraci.
Il nome “Benjamin Willard” deriva dai nomi dei figli maggiori di Harrison Ford mentre il “Col. Lucas” è un omaggio al grande regista George Lucas, che pure ha messo lo zampino nel film.
Le riprese si svolgono nelle Filippine, sul fiume Pasanjan, nonostante le opposizioni iniziali del governo di Ferdinand Marcos. Le riprese andarono avanti con estreme difficoltà. Nel 1976, un tifone distrusse la maggior parte dei set che si dovettero ricostruire da capo: questo perché Coppola voleva girare nella stagione delle piogge. Il ritmo lento con cui proseguivano le riprese, i dubbi della produzione, l’opposizione del governo americano, portarono allo stress l’intero entourage, che cominciò a fare uso di droghe: in particolare Martin Sheen fu colpito da infarto e si dovette usare una controfigura inquadrata di spalle durante la convalescenza, mentre Coppola entrò in un grave stato di depressione, perse 30 chili, tentò il suicidio e divorziò dalla moglie Eleanor.
Dopo un anno e mezzo di riprese ed una spesa di 30 milioni di dollari (di cui 1 solo di compenso a Marlon Brando), la Zoetrope, la casa di produzione del regista, dopo aver sfiorato il fallimento durante la realizzazione della pellicola, incassò 150 milioni, 78 sono in USA.
In una delle scene che ritrae l’arrivo di Willard al campo di Kurtz, su un muro appare la scritta “Our Ghetto: Apocalypse now”: il titolo del film compare solo in quest’occasione per proteggerne il copyright.
Coppola compie, a quanto pare, un solo errore nella rivisitazione bellica: i fucili M16 impiegati dai suoi soldati hanno caricatori da 30 colpi mentre quelli usati in Vietnam erano dotati di caricatori da 20 colpi: gli appassionati di storia sapranno che il caricatore da 20 colpi fu additato come una delle cause della sconfitta americana.
L’assassinio di Kurtz può essere valutato come un omaggio al film “Sciopero!”, del 1925, di Sergej MIchajlovic: in entrambe le pellicole la morte viene paragonata alla macellazione di un toro.
Nelle scene iniziale del film, Coppola fece realmente ubriacare Martin Sheen e la scena della rottura del vetro venne “improvvisata” dall’alterato attore. Sul proseguo della vicenda ci sono versioni discordanti: se Coppola abbia deciso di far continuare le riprese anche se preoccupato per la salute dell’attore o se Sheen abbia fermato il regista, che voleva chiamare un medico, non ci è dato sapere.
In ultimo, dobbiamo ricordare che, nella versione italiana del 1979, durante i titoli di cosa compariva l’aviazione americana intenta a bombardare il villaggio di Kurtz. Coppola non aveva mai pensato a questa scena: gli aerei erano, in verità, intenti nella distruzione dei set, come stabilito dalle direttive del governo delle Filippine. Alla fine del girato, Coppola decise di usare le riprese per la versione in 35mm.

C’è bisogno veramente di parlare di “grande collaborazione”, se si tratta di “Apocalypse now”. Un Martin Sheen intenso ed introspettivo scalza attori del calibro di H. Keitel (che pure prende parte alla prima settimana di riprese, ma viene poi sostituito da Coppola) ed Al Pacino, aggiudicandosi il ruolo che gli vale la definitiva consacrazione. Dopo l’iniziale scelta di Jack Nicholson, per il ruolo di Kurtz viene preferito Marlon Brando, il quale, abbandonate le ritrosie iniziali, decide di accettare a patto che le riprese vengano effettuate sempre nella penombra, per evitare che si noti il decisivo aumento di peso: purtroppo l’attore, al momento delle riprese, era già afflitto dall’obesità che, accompagnata a gravi perdite familiari, lo condurrà in un periodo particolarmente buio. Al fianco dei due protagonisti/antagonisti attori affermati e giovani promesse: Robert Duvall, nel ruolo del fanatico Ten. Billy Kilgore, Dennis Hopper, strambo fotoreporter suddito del Dio-Kurtz, un giovanissimo Laurence Fishburne ancora lontano dal successo di “Matrix”, e ancora i camei di Harrison Ford e Scott Glenn.
Il novero delle “grandi collaborazioni” continua quando ci si sposta dietro le macchine da presa. La vivida fotografia dell’italiano “cinematografo” Vittorio Storaro, vincitore dell’Oscar proprio con “Apocalypse now”, partecipa all’eternità del film, così come le scenografia di Dean Tavoularis e le musiche.
Il motore dell’opera è costituito dalla famiglia Coppola quasi al completo: Carmine, il capofamiglia padre di Francis, si occupa del sonoro aggiudicandosi un Oscar meritatissimo; alla regia, il figlio, che infonde tutto il suo genio alla pellicola, sacrificandone in salute ed affetto. Fanno la loro comparsa sullo schermo, anche Roman e Giancarlo, i giovanissimi figli di Francis. Ricordiamo che alla famiglia Coppola appartengono anche Talia Shire, sorella di Francis, al secolo Adriana Pennino moglie del pugile più famoso del grande schermo Rocky Balboa, Sofia Coppola, figlia di Francis, che ha seguito le orme del padre alla regia, e Nicholas Kim Coppola (meglio conosciuto con lo pseudonimo di Nicolas cage), figlio di August Coppola secondogenito di Carmine.
Oltre che lavorare per gli attori, Coppola figlio, Storaro e Tavoularis si regalano un breve cammeo: interpretano nel film il regista, l’operatore ed il fonico addetti alle registrazioni delle scene di guerra come corrispondenti.
Oltre i due Oscar, il film vince la Palma D’oro , nonostante sia ancora un work in progress, in ex aequo con “Il tamburo di latta” di Volker Schlondorff. Si aggiudica anche tre Golden Globe, e gli viene soffiato via il terzo Oscar a miglior film dal pluripremiato “Kramer vs Kramer”, risentendo anche della recente realizzazione di un’altra fortunatissima pellicola incentrata sulla guerra in Vietnam, il “Cacciatore”. Inoltre, l’American Film Institute lo inserisce prima al 28° posto, nel 1998, e poi al 30°, nel 2008, nella lista dei cento migliori film statunitensi di tutti i tempi.
I sacrifici cui si sottopone lo staff tutto non sono assolutamente vani: siamo al cospetto di un vero capolavoro senza tempo, di quelli che non si vedono più.

VOTO 9/10

                                                                                                                                                            Marco Fiorillo

 Pier Lorenzo Pisano