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giovedì 7 luglio 2011

I Guardiani del Destino (2011)

Matt Damon: David Norris

Emily Blunt: Elise Sellas

Anthony Mackie: Harry Mitchell

John Slattery: Richardson

Terence Stamp: Thompson

Michael Kelly: Charlie Traynor

Regia: George Nolfi

Soggetto: Philip K. Dick

Sceneggiatura: George Nolfi

Fotografia: John Toll

Musiche: Thomas Newman

Scenografie: Kevin Thompson


David Norris (Matt Damon), giovane membro del Congresso, sta per coronare la sua scalata al successo con l’elezione a Senatore di New York. Le mire dell’irruente e amato carrierista vengono, tuttavia, frenate dalla pubblicazione di foto poco consone alla carica che sta per assumere. Tempestivamente informato della preannunciata sconfitta, Norris si rifugia nel bagno degli uomini, “per leccarsi le ferite”. Nella toilette, però, non trova conforto, bensì la bellissima Elise (Emily Blunt), in fuga dal servizio di sicurezza per essersi imbucata ad una festa. Tra i due si stabilisce immediatamente un’attrazione irrefrenabile che sembra non poter trovare appagamento: il loro successivo incontro, frutto del caso, non sarebbe mai dovuto verificarsi, secondo il “piano superiore” protetto da misteriosi agenti, chiamati i “guardiani”. Prende forma, così, una favola dal tono fantascientifico, in cui il trionfo dell’amore non sembra del tutto scontato.

La pellicola riesuma, ancora una volta, l’immortale talento letterario di Philip K. Dick, universalmente riconosciuto come uno dei più grandi autori di fantascienza, nonostante la vita eccessiva e sregolata (contiamo ben cinque matrimoni ed una lunga dipendenza da stupefacenti e antidepressivi). Dopo aver ispirato, direttamente ed indirettamente, alcuni dei pilastri della fantascienza su celluloide, quali “Blade Runner”, “Minority Report”, “The Truman Show”, la trilogia di “Matrix”, Dick, da il là alla prima regia dello sceneggiatore George Nolfi: “I Guardiani del Destino” si propone, infatti, di rivisitare in maniera assolutamente originale il breve racconto “Adjustment Team”, pubblicato per la prima volta nel lontano 1954. Se ricordavamo le ottime prove di Nolfi come sceneggiatore, difficilmente possiamo dire lo stesso della sua prima regia: propone una delle versioni cinematografiche più lontane dall’essenza del pensiero dickiano, basando il tutto su basi narrativi che lasciano veramente a desiderare.

È così che, i temi dell’eterno complotto, della’ambivalenza incontro/scontro tra uomo e macchina, colonne delle opere dello scrittore, cedono il passo ad una storia d’amore che nasce nel giro di tre minuti per poi riprendere dopo tre anni. La ricercata Elise/Blunt, rea del gravissimo reato di “imbuco”, e David/Dammon, vengono separati da una schiera di pseudo- angeli in tweed i cui poteri, consessi loro da uno pseudo- Dio/Presidente, risiedono in magici borsalini che gli permettono di mantenere invariato il piano stabilito “in quel di lassù”. Il tutto diviso tra scende d’azione, intimistici quadri amorosi e paradossali echi di religioso insegnamento, che spaziano tra il destino, il libero arbitrio ed il fato.

Troviamo consolazione nell’ottima riproposizione della città di New York, nella fotografia ,sempre buona, di John Stoll e nella colonna sonora, firmata Thomas Newman.

Alla pellicola prendono parte due star affermate, cui si deve riconoscere, in questo caso, la bravura di mantenere sulle proprie spalle l’intero intreccio: l’ormai affermato Matt Damon, che pure aveva già lavorato con Nolfi, nella realizzazione di “The Bourne Ultimatum”, viene affiancato dalla talentuosa Emily Blunt, anch’essa pienamente accetta nella “hall of fame” di Hollywood. Ai due si accompagna il talento sempreverde di Terence Stamp.

Nonostante le ottime premesse, il risultato è un film imbarazzante che ci fa domandare chi o cosa abbia spinto Nolfi alla direzione registica.

VOTO 4/10

Marco Fiorillo

Pier Lorenzo Pisano

13 Assassini (2011)

Koji Yakusho: Shinzaemon Shimada

Takayuki Yamada: Shin Rouko

Yusuke Iseya: Koyata

Goro Inagaki: Lord Naritsugu Matsudaira

Masachika Ichimura: Hanbei Kitou

Mikijiro Hira: Sir Doi

Hiroki Matsukata: Kuranaga

Ikki Sawamura: Mitsuhashi

Arata Furuta: Sahara

Tsuyoshi Ihara: Hirayama

Masataka Kubota: Ogura

Sosuke Takaoka: Hioki

Seiji Rokkaku: Otake

Yuma Ishigaki: Higuchi

Koen Kondo: Horii

Regia: Takashi Miike

Soggetto: Kaneo Ikegami

Sceneggiatura: Kaneo Ikegami, Daisuke Tengan

Fotografia: Nobuyasu Kita

Musiche: Koji Endo

Scenografie: Yuji Hayashida


Togugawa, 1884. Il fratello dello Shogun, Naritsugu (Goro Inagaki), ebbro di violenza e depravazione, sta seminando la morte tra le famiglie della regione. Accertata l’impossibilità di risolvere la questione per vie diplomatiche e per l’eccessiva efferatezza dei crimini, il ciambellano Doi (Mikijiro Hira) dispone l’eliminazione del “nobile”. Il compito viene affidato al venerando maestro di katana Shinzaemon Shimada (Koji Yakusho). Per portare a compimento la missione, il samurai riunisce attorno a se dodici valorosi guerrieri: i tredici assassini saranno chiamati a porre fine all’incubo partorito dalla perversa mente di Naritsugu.

La pellicola, presentata con discreto successo alla 67° Mostra d’arte cinematografica di Venezia nel settembre del 2010, è un rifacimento del nipponico “jidai geki” (il nostrano “cappa e spada”) “13 Assassini”, diretto nel 1963 dal maestro Eiichi Kudo. Eguaglia la maestria dell’omonimo precedente, l’opera di Takashi Miike. Ne è passato di tempo da quando, il cineasta giapponese, vide esplodere il suo successo al di fuori dei confini di patria, con la produzione di “Fudoh”, prima, e della trilogia de “Dead or Alive”, poi. Eppure il suo cinema dalle radici sempreverdi non ha smesso di impressionare, come dimostra l’ultimo “13 Assassini”. Se da una parte il film incanta per la vivida e magistrale presa visiva, frutto del talento del regista e dell’abilità nel renderlo su celluloide di Kita, Direttore della fotografia, e per la suggestiva colonna sonora, cassa di risonanza d’estrema evocazione, la vera abilità sta nel sapere impastare, con mano esperta, la perfezione stilistica con la resa contenutistica. Ed è così che prende vita un Giappone malfermo, spaccato tra l’atavica tradizione che porta sulle spalle e la strada che conduce alla modernità: il tutto, reso dallo scontro tra samurai e fucili, portato sullo schermo con intense scende d’azione ed una violenza cruda ma mai eccessiva, considerando le carneficine cui ci ha abituato Miike.

Il tutto farebbe sperare in un meritato spiraglio qualitativo, nel grigiore di una contemporanea produzione cinematografia che lascia alquanto a desiderare. Tuttavia, il successo, nella sua completezza, viene minato da due fattori: l’eccessiva durata determina un dispiegamento dell’azione troppo rallentato, cui si unisce una resa linguistica che risente delle difficoltà di traduzione di un idioma così complesso, come quello della tradizione nipponica.

Si tratta, nonostante qualche pecca, di una prova brillante, che testimonia come il valore d’una pellicola possa passare ancora per il talento e per la dedizione, e non solo per la lente 3D di un paio d’occhiali.

VOTO 7/10

Marco Fiorillo

Pier Lorenzo Pisano

Ritorno al Futuro (1985)




Ciclo "Per non dimenticare" Compleanni di celluloide: Michael J. Fox


Ritorno al Futuro (1985)


Michael J. Fox: Marty Mc Fly

Christopher Lloyd: Emmet L. “Doc” Brown

Lea Thompson: Lorraine Banes Mc Fly

Crispin Glover: George Mc Fly

Thomas F. Wilson: Biff Tannen

Claudia Wells: Jennifer Parker

James Tolkan: Strickland

Marc Mc Clure: Dave Mc Fly

Wendie Jo Sperber: Linda Mc Fly

Regia: Robert Zemeckis

Sceneggiatura: Robert Zemeckis, Bob Gale

Fotografia: Dean Cundey

Effetti Speciali: Kevin Pike

Musiche: Alan Silvestri, Huey Lewis & The News

Scenografie: Lawrence G. Paull

Produttore Esecutivo: Steven Spielberg


“Strade? Dove stiamo andando non c’è bisogno di strade!” Basterebbe citare questa breve battuta per esser certi di nominare una delle pagine più appassionanti e decisive della storia del cinema. Un film che “ha attraversato il tempo”, per rimanere accanto a ben tre generazioni di fan e cinefili.

Hill Valley, California. 25 Ottobre 1985. Il diciassettenne Marty Mc Fly (Micheal J. Fox) raggiunge l’abitazione dell’amico Doc Brown (Christopher Lloyd), impaziente di provare un nuovo sistema di amplificazione per la sua Gibson ES-335. All’arrivo non trova né Doc né il suo fidato compagno a quattro zampe, Einstein: lo scienziato lo chiamerà poco dopo, per dargli appuntamento quella sera stessa, alla 1.00, presso il parcheggio del centro commerciale dei “Due Pini”. Arrivata la notte, Marty lo raggiunge al parcheggio per assistere all’evento che gli cambierà la vita: Doc gli mette, infatti, una telecamera in mano, affidandogli il compito di filmare il primo viaggio nel tempo della storia dell’uomo. il giovane ha appena il tempo di cominciare a riprendere e vedere il cane Einstein, a bordo della Delorian/Macchina del Tempo, scomparire e riapparire, dopo aver viaggiato nel continuum spaziotemporale. L’esperimento è riuscito, ma lo scienziato deve fare i conti con i terroristi cui ha rubato il plutonio necessario per alimentare la Delorian. I libici arrivano a fucili spianati, uccidono Doc e mettono in fuga Marty: il giovane parte a bordo della Delorian ma, per sfuggire agli inseguitori, porta l’automobile alla velocità di 88 miglia orarie, attivando il flusso temporale e raggiungendo il 1955. Catapultato nella Hill Valley di trent’anni prima, Marty dovrà fare i conti con l’incredulità di Doc e la necessità di non interferire col continuum spaziotemporale dell’epoca dei suoi genitori. Ritornare al futuro è la meta dell’incredibile viaggio di Marty.

Ritratto sociale, esperienza fantascientifica e pellicola di successo a un tempo, “Ritorno al Futuro” rappresenta uno snodo fondamentale nel percorso storico del cinema, sia come punto d’arrivo mediatico che come apripista del genere. Di qualità ce ne’è moltissima(come rivelano i molteplici riferimenti più o meno comprensibili per il medio pubblico) sia dietro che di fronte le telecamere. Zemeckis e Gale, in ordine regista e sceneggiatore, dirigono magistralmente gli interpreti e mettono sulla scena contemporaneo e contenuto, in un mix ancor più compatto, grazie alla colonna sonora, storica ormai come tutto il girato, di Alan Silvestri: Zemeckis e Gale, i cui talenti furono notati per la prima volta da un certo Steven Spielberg, si uniranno al compositore per costituire un vero e proprio “trio delle meraviglie”, le cui gesta tanto hanno dato al grande schermo.

Nella trama, ricchissima dal punto di vista narrativo, si affrontano velate tematiche d’attualità intrise di sapienza mondana e cinematografica. Contrapposto al “muscoloso eroe solitario e irascibile”, rappresentato vuoi da Stallone vuoi da Schwarzenegger, è il “modaiolo” Marty, tipetto sveglio e ironico, maschera comica e furba, capace di far avvicinare ed immedesimare nei suoi jeans Levis la generazione più giovane. Non manca, però, un riferimento anche a quella di mezzo, la generazione dei padri e delle madri per così dire, raffigurata nella duplice faccia della stessa medaglia: da una parte, una famiglia decadente nell’affetto e nello stile di vita, ricostruita sul finire della pellicola, come nucleo brillante ed unito, che ha saputo sfruttare al meglio le occasioni che la vita ha proposto. Il tutto condito dalla principale linea tematica, quel bisogno di sapienza scientifica, di conoscenza dell’inconoscibile che ha spinto l’uomo oltre i confini della Terra. La dinamicità narrativa e la vicinanza mediatica sono sublimate da scelte cinematografiche più che azzeccate, che sono rimaste immortali e feconde nonostante il passare del tempo: la mitica Delorian, l’uso dello skate (non è un caso, forse, che sia il principale mezzo di trasporto di Bart Simpson), lo stralunato comportamento di Doc, le battute, hanno animato fan e cineasti in un successo sempreverde.

Qualche curiosità meno reperibile, adesso, tra le varie cicche relative alla pellicola.

La prima stesura del film, prevedeva che la macchina del tempo fosse un frigorifero: in fase di realizzazione, il Produttore Esecutivo, Steven Spielberg, si rese conto che sarebbe stata una scelta poco adatta al pubblico più piccino, decidendo, infine, per il fortunatissimo uso della Delorian. Sempre in fase pre- produttiva, Doc/Lloyd doveva essere affiancato da uno scimpanzé, Chimp: si scelse, infine, il cane Einstein, ritenuto più “commerciale” rispetto al primate.

Due sono le citazioni più rinomate della pellicola: l’omaggio al maestro George Lucas incarnato dal travestimento di Marty/Michael, che si finge Darth Vader per convincere il padre a fare la corte alla madre, nel 1955, e la telefonata a Chuck Berry, al momento dell’esecuzione, sempre nel 1955, della celebre “Johnny be good”.

Si tratta di un evento di portata strepitosa, non solo dal punto di vista cinematografico, capace di mantenere la propria longevità anche a ventisei anni dalla produzione. Un ringraziamento ci sembra il minimo.

VOTO 8/10

Marco Fiorillo

Pier Lorenzo Pisano