traduzione

sabato 8 ottobre 2011

Abduction (2011)


Taylor Lautner: Nathan Harper
Lily Collins: Karen Lowell
Alfred Molina: Frank Barton
Sigourney Weaver: Dott. Bennett
Jason Isaacs: Kevin
Maria Bello: Mara
Michael Nyqvist: Victor Kozlow
Antonique Smith: Sandra Burn
Regia: John Singleton
Sceneggiatura: Shawn Christensen
Fotografia: Peter Menzies Jr.
Musiche: Ed Shearmur
Scenografie: Keith Brian Burns

Spericolate corse in auto, borse piene di soldi, documenti e pistole, passati misteriosi che ritornano a galla. Ritorna il “muscle&cars” film ma gli anni ’80 sembrano un lontanissimo ricordo.
Il liceale Nathan Harper (Taylor Lautner) conduce una vita comune ai coetanei: a casa segue le rigide direttive del padre Kevin (Jason Isaacs) tutto serietà e allenamento, per poi darsi a gesti spericolati e serate alcoliche appena si allontana dal perimetro familiare. Il comune denominatore è l’amore per la vicina di casa Karen (Lily Collins). Con la stessa comincia un progetto scolastico che li porterà a visitare un sito di bambini scomparsi, evento che metterà in moto una serie di adrenaliniche peripezie.
Action movie dalle tinte moderne, “Abduction” riporta alla regia John Singleton dopo sei anni d’assenza e prepara il trampolino di lancio per il nuovo “teenage dream” Taylor Lautner. La pellicola nasce, infatti, come prodotto assolutamente commerciale che intende rinfrescare quel genere tanto di moda negli anni ’80, fornendo alle nuove leve il proprio idolo, Lautner appunto, destinandolo ad accompagnarle nel corso del tempo. Se pure il giovane potrebbe mostrare qualità passibili di miglioramento, è la pellicola a non essere all’altezza: i dialoghi elementari e la trama veramente scontata ledono notevolmente il risultato finale. Peccato considerando che, almeno finché l’azione pura è sullo schermo Lautner si dimostra adatto e preparato, merito anche dell’estrema fisicità e del duro allenamento cui si sottopone oramai da anni: tratti che comunque non velano le limitate capacità a respiro regolare.
Dopo la lunga pausa, Singleton ritrova il proprio genere, l’azione, nonostante vanti un inizio di carriera assolutamente diverso: fu il più giovane regista ad essere candidato ad un Oscar, nel 1991, per il suo “Boyz in the Hood”. Oltre a Lautner, il cui successo è stato consacrato definitivamente con la partecipazione alla serie di riduzioni cinematografiche dei romanzi di Stephanie Meyers, Singleton dirige un’altra giovane promesso Lily Collins, figlia del batterista e cantante Phil Collins, ed il maturo trio Molina/Weaver/Isaacs, cui viene “affidata” la giovane coppia di protagonisti.
Perde facilmente la rabbia come Don Toretto/Vin Diesel, si lancia in ogni spericolatezza come Ethan Hunt/Tom Cruise, salta via dalle bombe come Rambo /Stallone, picchia come Seagal e ricorda nell’estrema fisicità un giovanissimo Arnold Schwarzenegger, ciò che manca a Lautner non è la presenza ma lo spirito, l’emozione che non sia adrenalina. La fattura mediocre della pellicola non permette di valutarne a pieno le capacità. Non ci resta che aspettare.
VOTO 3/10
Marco Fiorillo
Pier Lorenzo Pisano

giovedì 6 ottobre 2011

Frankenstein di Mary Shelley (1994)


Ciclo "Per non dimenticare": Sfogliando una pellicola...

Robert de Niro: la Creatura
Kenneth Branagh: Victor Frankenstein
Helena Bonham Carter: Elisabetta Lavenza
Tom Hulce: Enrico Clerval
Aidan Quinn:Robert Walton
Ian Holm: Alfonso Frankenstein
Richard Briers: De Lancey
John Cleese: Prof. Waldman
Cherie Lunghi: Caroline Frankenstein
Regia: Kenneth Branagh
Soggetto: Mary Shelley
Sceneggiatura: Steph Lady, Frank Darabont
Fotografia: Roger Pratt
Musiche: Patrick Doyle

Nell’estate piovosa del 1816, Mary Shelley cominciò per caso a scrivere una breve storia di fantasmi: quella storia sarebbe diventata “Frankenstein; ovvero il moderno Prometeo”, opera prima della scrittrice. Quasi due secoli dopo, lo strumento si adatta al tempo che passa ma l’emozione della narrazione rimane la stessa.
Mare Artico, 1794. Il Capitano Walton (Aidan Quinn) rimane intrappolato con la sua imbarcazione tra gli insuperabili ghiacciai. Mentre la sua ciurma lavora per spaccare la lastra che blocca il passaggio, uno stravolto viandante raggiunge la nave. L’uomo, a colloquio con il Capitano, rivelerà d’essere Victor Frankenstein (Kenneth Branagh), un medico in fuga da una terribile minaccia. Come un aedo della migliore tradizione orale, Frankenstein racconta la sua storia a Walton, ripercorrendo tutta la sua vita.
La trama intessuta da Mary Shelley ha sempre fornito fruttuoso materiale per l’industria cinematografica. Una “collaborazione”, quella tra mondo cartaceo e cinepresa, cominciata nel lontano 1910, con il cortometraggio muto di J. Searly Dawley, e terminata proprio con la versione proposta da Branagh e compagni nel più vicino 1994. La pellicola rientrava in un progetto della Tristar che prevedeva la realizzazione di film horror cult, tra cui si inseriscono “Dracula di Bram Stocker”, “Mary Reilly” e “Wolf- La Belva è fuori”. I temi che suscitano interessi sono, ovviamente, gli stessi che vengono proposti nel romanzo ma trovano nuova forza perché più vicini a noi cronologicamente. Viene portata sullo schermo una dinamica assolutamente moderna che rientra pienamente nel dibattito scienza/morale: quando è diventato possibile cambiare completamente il proprio aspetto, poter aver la possibilità di riflettere sulla pericolosità dell’avanzamento scientifico diviene fondamentale. Quando poi lo strumento è così vicino a noi come il Cinema, la riflessione è ulteriormente fruibile. Ancor più interessante è la messa in scena della vicenda, molto vicina ad una realizzazione teatrale, come dimostrato dalla scansione di tre momenti narrativi molto chiari, cui si associano altrettanti “palcoscenici”. Una scelta che, oltre ad esaltare la riproposizione della vicenda, diminuisce le distanze tra romanzo e cinema.
Basta notare il nome legato alla regia dell’ultimo “Frankenstein” per comprendere la direzione teatrale della produzione. Kenneth Branagh, ha mosso i primi passi della sua florida carriera in teatro, trovando in Shakespare un modello ed un “mentore”. Quando, nel 1987, fonda la Renaissance Theatre Company, conosce il compositore Patrick Doyle: i due condivideranno la maggior parte delle loro esperienze lavorative. Alla coppia si unisce lo sceneggiatore Frank Darabont, che già aveva avuto modo di dimostrare le proprie qualità nella riduzione cartacea occupandosi di “Le ali della Libertà” e del “Miglio Verde”, entrambe storia del maestro dell’horror Stephen King.
A suggellare il successo del film, la presenza del sempreverde Robert de Niro, la cui sola presenza basterebbe a rendere credibile il tutto. Al suo fianco, Kennet Branagh, sempre valido anche davanti alle telecamere, Helena Bonham Carter e Ian Holm, meglio conosciuto con lo pseudonimo tolkeniano di Bilbo Baggins.
Nonostante le difficoltà che l’operazione della trasposizione implica, il risultato è un’opera godibile ed emozionante, equilibrata nel gestire brivido e dramma.
VOTO 7/10
Marco Fiorillo
Pier Lorenzo Pisano

martedì 4 ottobre 2011

68esima Mostra del Cinema di Venezia


Cineteca alla Mostra del Cinema di Venezia


Siamo nell'Ohio, alle primarie dei democratici, al seguito di Mike Morris(G.Clooney) carismatico e idealista candidato alla presidenza. Dietro di lui Stephen Meyers (Ryan Gosling),organizza la campagna. In un vortice di intrighi politici, di coltellate alle spalle, di nuovi scenari che si aprono, ed una moralità che perde ogni freno e si degrada velocemente tra mille compromessi che la vedono sacrificata, perdiamo la fiducia in noi stessi, nei nostri sistemi di valori, per ricrearcene altri più adatti alla spietata lotta che è la politica.

In un battito di applausi siamo in viaggio con Santiago e sua moglie Elisa, conosciamo la loro adorabile figlia di un anno e mezzo, e le difficoltà che la giovane coppia attraversa cercando di conciliare le loro diverse aspirazioni, una esistenza tranquilla e serena per la figlia, la vita in una casa di campagna, lo spettro della solitudine e della paura della fine, che può arrivare in ogni momento.

Nel tempo di una intima riflessione, di quelle che ci distraggono tanto da far accelerare l’orologio, passiamo dal silenzio della campagna al silenzio artefatto di un appartamento , nel quale si rinchiudono Cisco(William Dafoe) e Skye, mentre il mondo fuori sta per finire senza possibilità di scampo, novelli Adamo ed Eva, ma al contrario. La morte è uno spauracchio presente in tutte le vite, almeno una volta ciascuno di noi si è  soffermato a valutarla, a cercare di capirla, ma ogni volta la soluzione è troppo complessa. Per valutare la morte bisogna valutare prima la vita, e cosa sia la vita, nessuno è in grado di dirlo. Nemmeno i santoni o i grandi uomini di pace e profeti che si alternano sullo schermo a fornire spiegazioni durante l’ultimo giorno dell’umanità. E un nido d’amore può anche affrontare crisi, e diventare un nido di disperazione , di fronte alla fine di ogni cosa.

Ma non c’è nemmeno il tempo di intristirsi, quando il sempiterno Al ci prende per mano e ci conduce attraverso l’opera di Oscar Wilde, la sua vita, e mette in scena per noi la sua “Salomè” accompagnato da Jessica Chastain(già vista in “Three of Life”, dà qui una prova attoriale di una forza impressionante, considerando anche che recita con un mostro sacro come Pacino). Tra piccoli sketch, interessanti approfondimenti , qualche risata e qualche lacrima, cogliamo la parte più importante dell’opera, che è anche quello che l’attore-regista Pacino vuole che noi arriviamo a comprendere: la sua essenza.

È davvero un peccato lasciarsi alle spalle Al Pacino, che si ascolterebbe per ore, come un vecchio nonno, mentre racconta e cerca di renderci partecipe della sua passione per il teatro, ed ancora di più dal momento che ci tocca seguire il dottor Faust ed incontrare il diavolo stesso. Diavolo che è un’ignorante e meschino affarista, un istrione, abile burattinaio, che sguazza in un mondo come quello di Faust, un mondo logoro e degradato, medievale e grottesco, all’apparenza puritano, ma in realtà colmo di sangue e lussuria, e dai toni molto scuri. Dialoghi pungenti e che fanno riflettere e mimica animalesca, lentezza e riflessività.

Il nostro cammino ha avuto molte più tappe, alcune notevoli altre meno, ma queste sono quelle che abbiamo voluto segnalarvi. Ed è da un singolo luogo, da una poltrona rossa, che siamo stati trasportati in tutti questi mondi.
La Mostra del cinema di Venezia è giunta alla sua 68esima edizione. Un’edizione molto ricca che ha dato spazio al cinema orientale, ma anche a vecchie glorie dell’occidente come Al Pacino, e ai divi del mainstream come George Clooney,  Kate Winslet ,Vincent Cassell e consorte, persino Madonna.  Grandi nomi di registi presenti: ad esempio  Polanski,  Soderbergh e Cronenberg . il presidente Aronofski  è una vecchia conoscenza del festival, che negli anni passati ha premiato ed acclamato i suoi The Wrestler, ed il Cigno nero. 

Cineteca è stata lì, sospesa nel mondo della celluloide, in quei dieci giorni in cui il lido di Venezia diventa un ricettacolo di geniali talenti e nuove promesse della settima Arte, dove si respira davvero il clima della creatività, dell'innovazione e della magia di saper creare mondi interi ed emozionare e soprendere in maniera sempre diversa,(si spera) gli spettatori. Respirare aria di cinema è un privilegio e noi speriamo con questo articolo ed il nostro intero progetto di portare almeno un pò di passione nelle vostre case attraverso gli schermi di un pc.

Pier Lorenzo Pisano
Marco Fiorillo


A Dangerous Method (2011)
Viggo Mortensen: Sigmund Freud
Michale Fassbender: Carl Jung
Keira Knightley: Sabina Spielrein
Vincent Cassel: Otto Gross
Sarah Gadon: Emma Jung

Regia: David Cronenberg
Soggetto: John Kerr, Christopher Hampton
Sceneggiatura: Christopher Hampton
Fotografia: Peter Suschitzky
Musiche: Howard Stone
Scenografie: James MaAteer
Costumi: Denise Cronenberg

Una storia vecchia di un secolo incontra il Grande Schermo, dopo aver conosciuto le pagine di un romanzo e il palco teatrale. Opera di mediazione commerciale o appagamento di un’esigenza veramente conoscitiva, il risultato rimane estremamente positivo.

Zurigo, 1904. La giovane Sabina Spielrein (Keira Knightley) viene ricoverata a Burgholzli, ospedale psichiatrico che vede tra le file del proprio personale il ventottenne Carl Jung. Il dottore decide di sottoporre Sabina all’innovativa  “teoria delle parole”, ispirata dagli studi del maestro Sigmund Freud (Viggo Mortensen), allora conosciuto solo di fama da Jung. La terapia condurrà i due in una profonda ricerca che abbandonerà le sicure sponde della scienza analitica per raggiungere gli infausti scogli dell’amore e della passione fisica.

La vicenda narrata in “A Dangerous Method” fu desunta dal ritrovamento di alcuni cartigli andati perduti, testimonianza dei rapporti intrattenuti  dal trio di studiosi Freud- Jung- Spielrein. La scoperta ispirò dapprima il volume “A Most Dangerous Method”, pubblicato nel 1993 da John Kerr, poi “The Talkin Cure”, opera teatrale sceneggiata da Christopher Hampton nel 2002. Ad entrambe le produzioni fa riferimento il regista canadese David Cronenberg per la realizzazione della sua pellicola. Considerato uno dei principali esponenti del cosiddetto “cinema body horror”- ramo cinematografico attento all’esplorazione del terrore umano dinanzi alla mutazione del corpo ed alle contaminazioni della carne- ha abbandonato la sperimentazione più “corporale”, propria delle prime opere fantascientifiche e del terrore, per avvicinarsi ad un’interpretazione più psicologica dell’argomento. Incarna pienamente questo spirito il suo ultimo “A Dangerous Method”, in cui il regista sceglie di indagare due temi in particolare: da una parte il rapporto medico/ paziente, dall’altra quello allievo/maestro. Il tutto avvolto in un clima di continua ricerca scientifica, di dubbi, di interrogativi. L’esperienza carnale diviene protagonista nel bene e nel male mentre assume valore secondario la disputa tra i limiti della psicoanalisi e più “facili espedienti”, quali misticismi e oniriche credenze proposte a più riprese da Jung/Fassbender. I tre studiosi, più o meno consapevolmente, indirizzano la psicoanalisi verso un nuovo sentiero: un percorso mirabilmente proposto da Cronenberg, indagatore come sempre.

Considerata la natura tutta della vicenda, si tratta di una storia che non poteva sfuggire al regista canadese: definitosi personalmente un “filosofo esistenzialista”, la sua speculazione cinematografica si è spinta verso tematiche metafisiche, come testimonia la pellicola in questione. Al suo fianco, due storici compagni. Peter Suchitzky, direttore della fotografia, fu notato dopo la sua collaborazione con Lucas per la realizzazione de “L’Impero colpisce ancora”: da quel momento il regista l’ha sempre voluto con sé. Howard Stone, compositore canadese, ha raggiunto l’apice del successo realizzando le musiche della trilogia de “il Signore degli Anelli”, aggiudicandosi ben due Oscar.
A vestire i panni dei due famosissimi psicoanalisti troviamo l’oramai affermato Viggo Mortensen, anch’egli debitore nei confronti della riduzione cinematografica dei romanzi di Tolkien, e il talentuoso Michael Fassbender, approdato forse troppo tardi al Mondo del Cinema ma ancora in tempo per lasciare il segno. La giovane Spielrein è, invece, interpretata da un’ottima Keira Knightley: liberatasi definitivamente dell’ombra della” piratessa Elizabeth Swan”, mostra un talento ormai maturo che gli permette di interpretare il personaggio sia nei momenti di lucidità che nei momenti in cui è la nevrosi a prendere il sopravvento. Secondario l’apporto di Vincent Cassel, utile alla causa.

Ciò che abbiamo di fronte è un delicato affresco di vita vissuta. Un’esplosione di retorica che non manca di rapire lo spettatore usufruendo solo di dialoghi perfettamente sceneggiati e del giusto ritmo narrativo. Niente 3D, nessuna sequenza action, solo qualità recitativa pura e semplice.

VOTO 7/10
Marco Fiorillo
Pier Lorenzo Pisano