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venerdì 9 marzo 2012

Ghost Rider- Spirito di Vendetta (2012)

Nicolas Cage: Johnny Blaze/ The Rider
Johnny Whitworth. Carrigan/Blackout
Ciaràn Hinds: Roarke/Mefistofele
Violante Placido: Nadya
Idris Elba: Moreau
Christopher Lambert: Methodius

Regia: Mark Neveldine, Brian Taylor
Sceneggiatura: Scott Gimple, Seth Hoffman, David Goyer
Fotografia: Brandon Trost
Montaggio: Brian Berdan
Musiche: David Sardy
Scenografie: Kevin Phipps

Uno sperduto santuario viene attaccato, le sue mura proteggono un ragazzino, Danny, oggetto di una misteriosa quanto diabolica profezia. Durante l’attacco il piccolo Danny e la madre Nadya si salvano, così come il sant’uomo Moreau che si mette sulle tracce del Ghost Rider, l’unico in grado di trovare e proteggere il giovane. Alla parte umana del Demone, Johnny Blaze, Moreau offre in cambio la cosa che desidera di più: l’annullamento del patto stabilito col Diavolo in persona che ne ha fatto un mostro senza controllo, il Rider.

Sequel de “Ghost Rider”, adattamento cinematografico del 2007 delle storie del personaggio Marvel creato da Gary Friedrich, Michael Plogg e Roy Thomas, “Spirito di Vendetta” vede cambiare location, non più l’Australia ma l’Europa (specialmente Romania e Turchia) più propriamente religiosa, il cast, di cui rimane solo il protagonista Cage, e le storie: “Volevamo che i personaggi fossero diversi. La storia di questi personaggi è diversa, l’origine della storia si evolve in modi a cui il primo non alludeva”, ammette proprio il regista Brian Taylor. I cambiamenti apportati, tra cui anche il budget, ridotto a 57 milioni dopo i 110 stanziati per il primo episodio, non apportano alcun miglioramento al progetto. La storia prosegue costantemente in affanno, tentando vanamente di sorprendere con qualche colpo di scena fin troppo prevedibile ed usufruendo di una sceneggiatura che lascia veramente a desiderare. Riassume la qualità del girato, la scelta di usare delle sequenze esplicative in cui a parlare è il Rider/Cage. Potrebbe giungere in aiuto, almeno, l’esperienza grafica ma, per essere una pellicola totalmente basata sull’azione e sulla spettacolarità dell’immagine, il risultato è comunque insufficiente. I lavori sono stati affidati allo Studio Lloura, che ha realizzato la pellicola quasi completamente in motion capture, ritrattandola poi in CGI: il ciò ha reso tutto più realistico e ha dato da fare al beniamino Cage e alla sua Yamaha VMAX.
Nonostante tutto, all’uscita nelle sale americane “Ghost Rider- Spirito di Vendetta” si è piazzato al secondo posto, incassando 7 milioni. Al di la dei confini statunitensi,  l’accoglienza ancor più calorosa ha permesso al Rider di raggiungere complessivamente quota 82 milioni: le “americanate” funzionano sempre e scatenano il pubblico, a maggio ragione se si tratta di una pellicola Marvel; discorso a parte vale per la critica che lo ha già definito il peggior film a fumetti. Non ci resta che aspettare il prossimo 23 Marzo per vederlo anche nelle sale italiane.

A dirigere i lavori, il duo Neveldine- Taylor che fecero la propria fortuna realizzando “Crank”, con Jason Statham, film divenuto un piccolo cult che costrinse la coppia al sequel. Seguì l’impegno di “Gamer” e la sceneggiatura di “Jonah Hex” (altra graphic novel firmata, però, DC COMICS) che hanno traghettato i soci inseparabili a questo secondo episodio di “Ghost Rider”, prendendo l’eredità di Mark Stevenson Johnson.
Davanti alle loro telecamere, oltre ad un Nicholas Kim Coppola sul viale del tramonto (ormai da troppo tempo!), Neveldine e Taylor ritrovano Johnny Withworth e inseriscono l’italianissima Violante Placido, alla sua seconda esperienza d’oltreoceano, dopo “The American” che la vide al fianco di George Clooney.

VOTO 4/10
Marco Fiorillo
Pier Lorenzo Pisano

The River Wild- Il Fiume della Paura (1994)

Ciclo  "Per non dimenticare": Celluloide al Femminile

Meryl Streep: Gail Hartman
David Strathairn: Tom Hartman
Kevin Bacon: Wade
John C. Reilly: Terry
Joseph Mazzello: Roarke

Regia: Curtis Hanson
Sceneggiatura: Denis O’Neill
Fotografia: Robert Elswit
Musiche: Jerry Goldsmith
Scenografie: Bill Kenney
Montaggio: David Brenner, Joe Hutshing


In crisi col marito e costretta a gestire da sola la famiglia, Gail decide di ritornare in Montana, dove è cresciuta, per trascorrere il compleanno del figlio Roarke facendo rafting. All’ultimo momento, l’impegnatissimo padre, Tom, riesce a raggiungerli e la gita sembra essere la più classica delle scampagnate familiari. Il tutto viene però disturbato dall’incontro di tre canoisti, che nascondono alla famiglia la loro vera identità, trasformando il percorso acquatico nel “fiume della paura”.

Thriller ansiolitico dalle tinte action, “The River Wild” porta chiaramente le firme degli interpreti come dell’entourage tutto. A dirigere i lavori Curtis Hanson, il regista de “Cattive Compagnie” e dei più recenti “8 Mile” e “In Her Shoes”, candidato all’Oscar nel 1998 per “L.A. Confidential”. Lo affiancano due maestri, rispettivamente della fotografia e della musica: Robert Elswit, famoso soprattutto per il suo sodalizio con Pual Thomas Anderson (tra cui, “Il Petroliere” gli valse l’Oscar nel 2008), e Jerry Goldsmith, scomparso nel 2004 dopo una vita dedicata alle orchestrazioni cinematografiche.
Le telecamere le ruba tutte Meryl Streep: versatile ed intensa come poche, riesce a dimostrare tutte le proprie capacità attoriali anche in bilico su un gommone da rafting: l’intensa preparazione le ha permesso di partecipare alla quasi totalità della pellicola personalmente, anche nelle sequenze più pericolose. Al fianco della senatrice hollywoodiana, David Strathairn, il cattivo per eccellenza Kavin Bacon e la promessa Joseph Mazzello: iniziò la propria carriera da giovanissimo, affiancando star coetanee ed attori di fama mondiale; tra le sue interpretazioni meritano menzione “Jurassik Park” e “Il Grande Volo”.

VOTO 6/10
Marco Fiorillo
Pier Lorenzo Pisano

lunedì 5 marzo 2012

Il Punto del Weekend


Marzo comincia sotto il segno del made in Italy: quattro delle sette pellicole in uscita nel weekend sono state, infatti, realizzate nei confini dello stivale, cui si aggiungono due progetti d’oltreoceano e un film britannico.

I PROTAGONISTI
Ulisse, ex produttore musicale, Domenico, imprenditore alla deriva, e Fulvio, ex critico cinematografico costretto a scrivere di gossip: apparentemente lontani tra loro, i tre protagonisti de “Posti in piedi in Paradiso”, lasciate le rispettive famiglie, si ritrovano a vivere insieme per sbarcare il lunario. Il 23° lungometraggio di Carlo Verdone è stato impropriamente inscritto nel filone neofita del “Cinema della Crisi”: storia di padri e figli, di possibilità economiche e carriere ma anche palcoscenico comico per l’eterno Verdone, nelle vesti di attore, regista e sceneggiatore, “Posti in piedi in Paradiso” non può essere iscritto in nessuna categoria, è proprio questo il suo valore.
In “Safe House”, l’ex agente della CIA Tobin Frost viene raggiunto dal giovane e inattivo Matt Weston e portato nella safe house di sua competenza. Durante l’interrogatorio, riguardante alcuni documenti compromettenti in possesso di Frost, l’edificio viene attaccato da un gruppo di mercenari: a salvarsi sono solo Frost e Weston, costretti a rimanere insieme per indagare sull’accaduto. Il buono ed il cattivo, il maestro e l’allievo: questi i due protagonisti dell’avvincente film diretto da Daniel Espinosa, perfettamente interpretati da Denzel Washington e Ryan Reynolds, in viaggio nell’intricato mondo della giustizia, sempre troppo scuro per quanto segreto. L’ottimo andamento della narrazione spy, la rivisitazione dei cliché e le ottime scene d’azione realistiche e coinvolgenti (in una delle scazzottate delle prove, Reynolds ha avuto l’onore di rifilare un occhio nero a Washington!), ne fanno un ottimo prodotto.
Sempre dagli States arriva “50 e 50”, in cui la vita fin troppo tranquilla del ventisettenne Adam viene sconvolta dal sopraggiungere di un particolare tipo di cancro. All’iniziale rassegnazione alla malattia, Adam contrappone la ricerca di ciò che è veramente importante per la vita che gli rimane. È sempre molto difficile affrontare un tema delicato come le malattie terminali; farlo tenendo come sottofondo una linea divertita ed ironica, perfettamente gestita da Seth Rogen, capace di addossarsi da solo l’intera impalcatura comica del girato, sembrerebbe addirittura impossibile. Ci riesce, e ci riesce veramente bene, Jonhatan Levine, i cui meriti vanno egualmente frazionati col protagonista Joseph Gordon-Levitt. Un’esplosione di emozioni, spesso patetiche ma genuine.
Ci spostiamo poi in Gran Bretagna per “The Woman in Black”. Lasciati a Londra il figlioletto e la badante, l’avvocato Arthur Kipps si reca in uno sperduto villaggio per occuparsi dell’eredità della proprietaria di Eal Marsh House. La tenuta, schivata da tutti gli abitanti della brughiera, contiene tra le propria mura un terrificante segreto. Già adattato per il Grande Schermo, la radio ed il teatro, il romanzo di Susan Hill “La donna in nero” viene preso in prestito, questa volta, da James Watkins, responsabile della riduzione peggiore fino a questo momento.
Ritorniamo, poi, in Italia. In “Henry”, è il titolo a dare il nome alla protagonista della pellicola: l’eroina, da cui dipendono Rocco, Gianni e Nina, venduta da Spillo e dalla famiglia malavitosa di Civitavecchia e motivo d’indagine per il commissario Silvestri ed il suo ambiguo collega Bellucci. Al suo terzo lungometraggio, Alessandro Piva cerca di raccontare l’Italia della criminalità e dello spaccio nelle sue svariate declinazioni personali: buone le premesse, non si può dire lo stesso della realizzazione. Ne “Gli Sfiorati”, invece, Metè e Belinda si ritrovano improvvisamente fratellastri, al momento delle nozze dei rispettivi genitori. Intrigato dalla sensualità ingenua e stralunata della sorellastra, Metè tenterà in ogni modo di distrarsi, aiutato dagli amici fraterni Damiano e Bruno. Prendendo spunto dall’omonimo romanzo di Sandro Veronesi, Matteo Rovere continua il proprio personale viaggio nel mondo  giovanile, intrapreso nel 2008 con l’opera prima “Un gioco da ragazze”, e continuato, ora, raccontando degli sfiorati: un gruppo di ragazzi che la vita la assaggiano ma non la mordono, costantemente in bilico tra volontà di fare e l’irrisolto. Il tutto interpretato da un cast vario e all’altezza, su tutti Andrea Bosca e Claudio Santamaria. Dulcis in fundo, l’ultima perla stillata dall’infinito talento dei fratelli Paolo e Vittorio Taviani, “Cesare deve morire”. A metà tra il documentario e l’esperienza filmica, “Cesare deve morire” è il racconto della messinscena  del “Giulio Cesare” di William Shakespeare da parte dei detenuti del carcere di Rebibbia. Un progetto toccante, intelligente e realizzato con dovizia e bravura, tutte caratteristiche che non fanno altro che moltiplicarsi sul Grande Schermo: a testimoniarlo l’Orso d’Oro vinto a Berlino, titolo che mancava all’Italia dal 1991.

LE SORPRESE
A dividersi la titolatura di questo fine settimana, due italiani. Andrea Bosca approda finalmente alla fama dopo la lunga gavetta: terminati gli studi al Teatro Stabile di Torino, ha alternato il teatro al cinema, fino all’ultimo “Magnifica Presenza”, film in uscita il prossimo 16 Marzo, in cui ha trovato la direzione del maestro Ferzan Ozpetek. Sappiamo di meno dell’ex detenuto Salvatore Striano, se non che la sua interpretazione di Bruto in “Cesare deve morire” è sulle bocche di tutti i critici d’Europa.

I FLOP E I TOP
I meno bravi della settimana:
3°.    Ultimo del podio, Daniel Radcliffe. Poche le colpe che gli si possono ascrivere per la cattiva riuscita di “The Woman in Black”, tuttavia l’attore britannico sembra aver contratto la sindrome della saga, dopo l’interpretazione di Harry Potter, il maghetto più famoso della storia.
2°.     A seguire, l’italiano Alessandro Piva. Il regista di “Henry” sfrutta male un soggetto tutto sommato interessante, realizzando un film scontato e costantemente in affanno, per dialoghi e sbocchi narrativi.
1°.    Premio di peggiore a James Watkins. Alla direzione di “The Woman in black”, il regista delle scuderie della Hammer Film Production non riesce a declinare nel modo migliore il soggetto ansiolitico/orrorifico, il preferito della casa di produzione: il risultato è una bella cornice senza una foto, una pellicola esteticamente perfetta ma vuota al proprio interno, che non fa altro che parafrasare il racconto della Hill.
Ed infine, i migliori del weekend:
3°.    Medaglia di bronzo per Daniel Espinosa. Un altro talento svedese, che si aggiunge ai più famosi Tomas Alfredson e Niels Arden Oplev, testimoniando la preparazione e la selezione delle scuole del Vecchio Continente.
2°.    Secondo sul podio Joseph Gordon-Levitt. L’attore statunitense è riuscito ad evitare il destino delle star bambine, troppo spesso destinate a vedere estinta la propria luce ancor prima dell’adolescenza: la prova attoriale de “50 e 50” ne è la perfetta dimostrazione.
1°.    Premio scontato per Paolo e Vittorio Taviani. Invitati allo spettacolo di Rebibbia, i fratelli ne rimasero folgorati e decisero di farne un lungometraggio originale e toccante, che ha il merito di portare bellezza ed emozione laddove c’è solo cemento e ripensamento. Una menziona la merita anche Nanni Moretti, presidente della Sacher Distribution che s’è fatta carico della pellicola.

BOX OFFICE
Trionfa nel fine settimana Carlo Verdone: il suo “Posti in piedi in Paradiso” raggiunge quota 3 milioni di € in soli due giorni. Al secondo posto si piazza “Quasi Amici”, segnando la fortunata rivalutazione del pubblico nostrano nella seconda settimana di programmazione; a seguire, “Viaggio nell’Isola Misteriosa” impedisce alle nex entry di arrivare al podio: finiscono fuori dalla top ten “Cesare deve morire”, “50 e 50” e “Gli Sfiorati”.

Marco Fiorillo
Pier Lorenzo Pisano

Henry (2012)

Claudio Gioè: Silvresti
Carolina Crescentini: Nina
Pietro De Silva: Rocco
Paolo Sassanelli:Bellucci
Michele Riondino: Gianni

Regia: Alessandro Piva
Soggetto: Alessandro Piva
Sceneggiatura: Alessandro Piva







Il fallimento compiuto della vita di Rocco e quello in atto della vita di Gianni sono accomunati dallo stesso male, “Henry”, l’eroina di cui vengono riforniti dal pusher, Spillo. Rocco, in un momento di frustrazione dovuto all’astinenza e alle soffiate che sta facendo per conto della famiglia criminale di Civitavecchia, uccide Spillo e la madre: prendono il via i guai di Gianni, sorpreso sul luogo del delitto, e della sua fidanzata Nina, anch’essa tossicodipendente , e le indagini del commissario Silvestri e dell’ambiguo collega Bellucci.

La protagonista del terzo lungometraggio di Alessandro Piva è “Henry”: la sostanza è il vero motore della pellicola come della vita dei personaggi: persone normali e delinquenti professionisti, poliziotti non troppo puliti e stranieri con poche possibilità, abitanti di un sottobosco italiano sempre più folto e preoccupante. È la storia di una battaglia lunga contro un male fin troppo radicato e troppo spesso dimenticato: se la guerra è ancora lunga (purtroppo nella realtà oltre che sullo schermo), lo scontro è vinto dai “cattivi”: i malavitosi si riprendono la macchina sequestrata un anno prima, trasformandola in veicolo di potere e rivincita.
Se soggetto e resa tecnica non dispiacciono, è la sostanza a venire meno: la caratterizzazione a tratti molto stanca, la reiterazione di luoghi comuni fin troppo scontati, la leggerezza di scrittura e dialogo e, soprattutto, la scelta di far proseguire il racconto direttamente per bocca dei protagonisti (una sorta di “interrogatorio filmico” inizialmente confondibile col proseguire delle indagini), sono tutti elementi che non chiariscono la distribuzione nelle sale. Diviso in puntate e trasmesso su Canale 5, nessuno avrebbe avuto di che ridire.

A dirigere i lavori, Alessandro Piva. Terminati gli studi di fotografia, montaggio e sceneggiatura al Centro Sperimentale di Cinematografia, lavorò come documentarista in Italia ed all’estero, fino al primo lungometraggio del 2000, “LaCapaGira”, cui ne segue solo un altro nel 2003, “Mio Cognato”, prima dell’ultimo “Henry”:  realizzato due anni or sono e presentato alla 28° edizione del Torino Film Festival, si aggiudicò il premio del pubblico al Miglior Film. Davanti alle telecamere, spiccano due beniamini del Piccolo Schermo, Claudio Gioè, meglio noto come Totò Riina de “Il Capo dei Capi”, e Paolo Sassanelli, Oscar Nobili per tutte e sette le serie del fortunatissimo “Un Medico in famiglia”, affiancati dalla bella Carolina Crescentini.

VOTO 5/10
Marco Fiorillo
Pier Lorenzo Pisano

50 e 50 (2012)




50 e 50
Titolo originale: 50/50
USA: 2011. Regia di: Jonathan Levine Genere: Commedia Durata: 100'
Interpreti: Joseph Gordon-Levitt, Seth Rogen, Anna Kendrick, Bryce Dallas Howard, Anjelica Huston, Julia Benson, Jessica Parker Kennedy, Philip Baker Hall, Marie Avgeropoulos, Geoff Gustafson, Sarah Smyth, Andrew Airlie, Luisa D'Oliveira, Andrea Brooks, Veena Sood, Matty Finochio, Sugar Lyn Beard, Yee Jee Tso, Serge Houde, Darien Provost, Daniel Bacon, Darla Fay, Nicholas Carella, William 'Big Sleeps' Stewart, Daryl Winter, Kyle Hunter
Sito web ufficiale: www.50-50themovie.com
Sito web italiano:
Nelle sale dal: 02/03/2012
Voto: 7,5
Trailer
Recensione di: Daria Castefrachi
L'aggettivo ideale: Catartico

Molti sono i film che nel corso degli anni hanno affrontato il tema della malattia - dei tumori in modo particolare - e di tutto ciò che comporta per chi ne soffre e per chi gli sta intorno.
Il più recente, Il mio angolo di paradiso, sembrava fatto apposta per scatenare un fiume di lacrime e, più in generale, celebri predecessori come Voglia di tenerezza o Love Story, rimangono famosi per la forte commozione suscitata.

E’ in questo che 50 e 50 si distingue dai drammoni strappalacrime: il film di Jonathan Levine affronta infatti con delicatezza, realismo ma soprattutto tanta ironia, un tema così duro da digerire, soprattutto quando il malato ha solo 27 anni.

Il regista americano dirige un bravissimo Joseph Gordon-Levitt in un film divertente e commovente senza risultare pietoso, autentico e pieno di speranza. Al fianco del protagonista Seth Rogen, nel ruolo a lui più congeniale: l’amico col pallino del sesso, che non esita a rimorchiare ragazze sfruttando la malattia di Adam ma che, allo stesso tempo, ha ampiamente letto e sottolineato un libro su come affrontare il cancro.

Le giovani protagoniste del film sono due stelle che si stanno affermando sempre più nel panorama del cinema hollywoodiano: Anna Kendrick - candidata all’Oscar per Tra le nuvole - e Bryce Dallas Howard, una delle eccezionali protagoniste dello splendido The Help. Insieme in The Twilight Saga: Eclipse, le attrici si ritrovano in un dramma dal sapore completamente diverso, in cui interpretano rispettivamente la terapista tirocinante di Adam – suo terzo paziente, che la costringe a fronteggiare una situazione per lei nuova e complicata - e la sua ragazza, che non si prende cura di lui e della sua malattia e per di più lo tradisce.
Nel ruolo della madre di Adam una bravissima Anjelica Houston: donna soffocante che già si occupa del marito con l’Alzheimer e che, nonostante l’indifferenza, muore d’amore per il figlio.

Scritto da Will Reiser, cui era stato diagnosticato il tipo di cancro che colpisce il giovane Adam, il film mette a nudo l’incredulità del personaggio di fronte ad una malattia potenzialmente fatale, pur senza mostrare le cure più terribili a cui un malato di tumore deve sottoporsi.
Al contrario, vengono messi in evidenza aspetti come il forte legame che si crea tra chi si ritrova nella sala della chemioterapia, o l’effetto deus ex machina che la malattia provoca negli amici del malcapitato, i cui problemi ben più gravi, fanno scomparire le piccole difficoltà quotidiane. Scrivere la sceneggiatura di 50 e 50 è stata una catarsi per Reiser e l’ironia che pervade la sua opera, è solo la prova che, spesso, una risata è davvero la medicina migliore.

Un film da vedere dunque, perché mescola sapientemente commedia e dramma e parla in maniera diversa di un tema ampiamente e spesso malamente sfruttato.
E perché mette in risalto i protagonisti, con i rispettivi background e caratteri. Eccellenti le performance degli attori, perfetta la fotografia che cattura la sofferenza, la paura e la battaglia fisica e interiore del giovane protagonista.
Il finale è un sorriso che sboccia a poco a poco, speranzoso, come simbolo dell’inizio di una nuova vita.