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mercoledì 8 giugno 2011

Paul (2011)


Simon Pegg: Graham Willy
Nick Frost: Clive Gollings
Kristen Wiig: Ruth Buggs
Jason Bateman: Agente Speciale Lorenzo Zoil
Jane Lynch: Pat Stevenson
Sigourney Weaver: “The Big Guy”
Blythe Danner: Tara Walton
John Carroll Lynch: Moses Buggs
Jeffrey Tambor: Adam Shadowchild
Regia: Greg Mottola
Sceneggiatura: Simon Pegg, Nick Frost
Fotografia: Lawrence Sher
Musiche: David Arnold
Scenografie: Jefferson Sage

Spassoso, cinico e leggermente in sovrappeso. Sarebbe un amico come un altro, se non avesse la pelle verde e non venisse da un altro Pianeta. Mottola squarcia nuovamente il velo della volta celeste, vestendo di ironia e disillusione anni di suggestioni fantascientifiche, nel tentativo di sfatare un mito fin troppo abusato.
Graham e Clive (Simon Pegg e Nick Frost) sono due nerd britannici giunti a San Diego per il ComiCon. A seguito della fiera, decidono di visitare i più famosi siti di avvistamenti alieni: si spostano, così, da Vasquez Rock all’Area 51, per arrivare alla Alien Mailbox, dove sono protagonisti di un incontro fin troppo ravvicinato. Fanno la conoscenza di Paul, un irriverente alieno atterrato sulla Terra negli anni ’40 che, dopo anni di collaborazione con la razza umana, tenta il ritorno sul pianeta natale, ostacolato dall’agente Zoil (Jason Bateman), alle dipendenze di un misterioso “capo” (Sigourney Weaver). I due inglesi rappresentano l’unica speranza di salvezza per Paul che, a bordo del loro caravan, tenta di raggiungere il punto di randevouz stabilito con i compatrioti. Sulla strada, i tre avranno modo di imbattersi nella famiglia Buggs, Moses (John Carrol) e la figlia Ruth (Kristen Wiig), infarciti di una rigorosa fede. Incontreranno, inoltre , Tara (Blythe Danner), che ha ancora un conto in sospeso con Paul.
La pellicola da vita all’interessante proposito di affrontare con leggerezza e divertimento il mondo cinematografico della fantascienza, inteso prima di tutto come parte integrante del mitico folklore americano, alimentato da anni di leggende e fanatismo. È così che i primi alieni sullo schermo sono proprio Graham e Clive: stranieri in terra straniera, sembrano provenire da un “Mondo” diverso, quasi da un “Mondo” più evoluto: la loro amicizia viene additata e derisa da tardivi forestieri da bar e la loro scienza viene considerata eretica da una “medievale” famiglia che fa della fede cattolica il pane quotidiano. La polemica tutta britannica cede il passo al vero protagonista, un alieno tutto parolacce e battute che stravolge completamente il puerile concetto di alieno, dimostrandosi molto più terrestre dei suoi grandi “predecessori” cinematografici. Per portare a completamento l’ironica revisione, vengono caricaturati alcuni dei momenti più importanti della storia del cinema di genere: le magliette indossate dai protagonisti, l’irriverente telefonata di Paul a Steven Spielberg alle prese con una sceneggiatura riguardante un alieno (si tratta ovviamente di E.T.), il richiamo al motivo musicale che si sente nella taverna di Mos Eisley (in cui Ben Kenobi e Luke Skywalker incontrarono per la prima volta Han Solo e Chewbecca, in “Guerre Stellari- Una nuova speranza), gli evidenti tributi, sul finire del girato, a “Indipendence Day” e, ancora una volta, a “E.T.”. Non sembra da attribuire al caso, nemmeno la scelta di avere nel cast Sigourney Weaver, la protagonista della famosissima serie “Alien”.
Sono ancora ben oleati i meccanismi che animano la coppia Pegg- Frost: i due, legati da una strettissima amicizia anche al di fuori del set, lavorano insieme dai tempi di “Spaced”, godendo della costante direzione di Edgar Wright, regista anche di quel “L’alba dei morti dementi”, tanto apprezzato proprio da Romero che chiese ai due di figurare in un cameo nel suo “La terra dei morti viventi”. Questa volta si sente la mancanza di Wright, “sostituito” da Greg Mottola: dopo i successi di “Suxbad” e “Adventureland”, va scemando il talento creativo del regista che, con “Paul”, mette in scena una semplice commedia divertente, i cui motivi “seriosi” e le trame narrative risultano sempre solo abbozzate e tese verso un finale fin troppo prevedibile e bonario; il valore aggiunto risiede nella resa del legame amicale tra i protagonisti, particolare sempre caro a Mottola. Al fianco del duo di punta, attori di medio calibro tra cui spicca, appunto, Sigourney Weaver e Blythe Danner, madre di altri due talenti hollywoodiani, Gwyneth e Jake Paltrow. Musica l’opera David Arnold, compositore delle colonne sonore di film di genere come “Stargate” e “Indipendence Day” e di tutti gli episodi dedicati all’agente 007, a partire dal 1997.
Nella versione originale, Paul viene doppiato da Seth Rogen, giovane attore e sceneggiatore canadese. Nella versione italiana viene scelta la voce di Elio: una scelta assolutamente azzeccata, considerando la fama che accompagna il musico di Milano che, intervistato ammette: “L’alieno un po’ mi assomiglia!”
Si tratta, dunque, di un film che, se affrontato senza attese narrative e aspettative critiche, risulta godibile nella sua cornice di commedia ironica.
VOTO 5/10
Marco Fiorillo
Pier Lorenzo Pisano

Un sogno per domani (2000)

Ciclo "Per non dimenticare": Eroi senza costume







Regia: Mimi Leder
Haley Joel Osment : Trevor McKinney
Helen Hunt : Arlene McKinney
Kevin Spacey : Eugene Simonet
Jay Mohr : Chris Chandler
James Caviezel : Jerry
Jon Bon Jovi : Mr. McKinney
Angie Dickinson : Grace
Marc Donato: Adam

Eugene Simonet (Kevin Spacey), un insegnante di scienze sociali, assegna ai suoi giovani studenti undicenni il compito di pensare se il mondo va loro bene così com’è o se hanno qualche idea per migliorarlo.
Trevor McKinney (Haley Joel Osment), col suo “passa-favore” riuscirà davvero a cambiare il mondo.

Tutta la vicenda ruota attorno al triangolo costituito dai tre protagonisti, Eugene, Trevor e sua madre Arlene (Helen Hunt): offrono delle interpretazioni intensissime e fanno sì che sullo schermo prendano forma i problemi sociali e personali che li affliggono. Nessuno ha avuto un’infanzia facile, nessuno riesce davvero a sentirsi bene con se stesso, tutti hanno scheletri nell’armadio e fuggono dai fantasmi del passato, ma la soluzione è proprio il “passa-favore” che permetterà ai protagonisti di avere il coraggio di fare scelte per sbloccare le loro drammatiche situazioni.

Ogni personaggio è delineato molto vividamente, probabilmente anche perché il film è un adattamento del romanzo “La formula del cuore” di Catherine Ryan Hyde. Da notare anche l’estrema originalità nel trattare tematiche di disagio sociale trite e ritrite in una nuova, positiva, chiave, anche se con un dramma di fondo.
Poiché i riflettori sono puntati sui tre protagonisti, ogni altra storia è di contorno all’interno del film,ma tutte convergeranno del drammatico finale.

Le figure di Eugene ed Arlene hanno molti punti in comune, entrambi con un’infanzia a dir poco terribile alle spalle, hanno reagito diversamente. Eugene ha fatto della sua vita una serie di eventi prestabiliti e regolari e si è istruito cercando di compensare, con l’intelletto, il suo handicap fisico. Arlene ha annegato i suoi problemi nell’alcol e nella ricerca di rifugio e certezze in altre persone: a pagarne il prezzo è stato Trevor, che vive con grande disagio le menzogne e l’alcolismo materno e la mancanza di una figura paterna.

Tuttavia Trevor è benedetto da un intuito e da un’intelligenza superiore e soprattutto da una grande generosità. I suoi discorsi mettono spesso alle strette gli “adulti” e la sua visione del mondo è totalmente disincantata. La sua rivoluzionaria idea, nata come progetto scolastico, è destinata a fare molta strada e a dimostrare che dopotutto gli uomini non sono così malvagi.

Nonostante le tematiche trattate rischiassero di fare cadere il film in un patetismo esasperato, il tutto risulta molto godibile, appassionante e ben scandito. Non lascia mai lo spettatore soddisfatto, il che è sempre un bene.

Voto:8/10

Pier Lorenzo Pisano
Marco Fiorillo

lunedì 6 giugno 2011

Patch Adams (1998)

Ciclo per non dimenticare: "Eroi senza costume"


Robin Williams: Hunter Patch Adams
Daniel London: Truman Schiff
Monica Potter: Carin Fisher
Philip Seymour Hoffman: Mitch Roman
Bob Gunton: Decano Walcott
Josef Sommer: Dr. Eaton
Ellen Albertini Dow: Aggie Kennedy
Irma P. Hall: Joletta
Michael Jeter: Rudy
Regia: Tom Shadyac
Soggetto: Hunter Adams, Maureen Mylander
Sceneggiatura: Steve Oedekerk
Fotogragia: Phedon Papamichael
Musiche: Marc Shaiman
Scenografie: Linda de Scenna

Prendete muscoli d’acciaio, poteri mutanti, costume e mantello, esperimenti governativi e disfatevene. Prendete un fucile, un distintivo, una manichetta o un seggio elettorale e disfatevene. Togliete il camice, i buoni propositi e le parole pompose. Per essere degli eroi a volte basta indossare una camicia variopinta e un largo sorriso, armarsi di pazienza e voglia d’ascoltare. Una lezione per il cinema ma, soprattutto, per la vita.
In preda alla depressione ed allo sconforto, Hunter Adams, tenta il suicidio. Spaventato dalle possibilità della sua coscienza, decide di internarsi di sua volontà, speranzoso di ricevere sollievo da medici e medicine. Di certo l’ospedale impone un cambiamento drastico, tuttavia il sollievo cercato arriva dai pazienti stessi: posto di fronte alla vera sofferenza, comprende la vera fortuna che ha nel vivere la propria vita. Prendersi cura dei nuovi amici vuol dire per Hunter sgombrare la mente dal dolore che si porta dentro. Così Hunter diviene “Patch” secondo la definizione del “malato” Arthur, ex magnate industriale affetto, ora, dalla sindrome del genio. Patch matura, così, la voglia di portare l’entusiasmo, il sorriso e l’aiuto che può dare, fuori dalle mura dell’ospedale; comincia gli studi di medicina, sconvolgendo quell’ambiente referenziale e austero, impersonato dalla figura del Decano Walcott (Bob Gunton) con la sua allegria e i suoi metodi anticonvenzionali. Supportato dai compagni Truman (Daniel London) e Mitch (Philip Seymour Hoffman) e dalla bella Carin (Monica Potter), con cui vivrà un’intensa storia d’amore, darà forma al suo sogno: un ospedale gratuito dove il paziente è anche medico, dove la prima cura è la compassione e l’empatia ed un abbraccio. Purtroppo, Patch non ha ancora finito di pagare il proprio debito alla vita e gli è riservata ancora una parte di dolore: verrà posto di nuovo dinanzi ad una scelta, abbandonarsi al dolore o fare di quell’allegria anche la propria cura.
La pellicola è tratta dal libro “Gesundheit: Good health si a laughing matter”, autobiografia di Hunter Adams, riconosciuto a tutti gli effetti come l’ideatore di quella particolare forma di terapia olistica, la “clown terapia”, che ha sconvolto radicalmente l’approccio dei medici alle malattie e ai malati.
Sullo schermo ci viene presentato un Adams fortemente provato da vicissitudini solo accennate. Ricordiamo che ,a soli sedici anni, Hunter, dopo aver ritrovato il padre di ritorno dalla guerra, lo perse per sempre, causa infarto; raggiunse lo zio in Virginia ma qui la “riabilitazione” fu impossibilitata dal sopraggiungere di un’ulcera (mal curata) e dal suicidio dello zio. Hunter privo di qualsiasi appiglio, tentò più volte il suicidio, poco convinto. Così lo ritroviamo internato volontario in un ospedale psichiatrico: Hunter scampa alla dipartita e prepara, in questo modo, il terreno per una vera e propria rinascita. Seppur breve, la permanenza in ospedale gli permette di capire che forma ha il vero dolore, il dolore di quei malati abbandonati all’indifferenza di un Mondo che li rifiuta. Dimentica le proprie sofferenze occupandosi di quelle della sua nuova famiglia che, inconsapevolmente, sta dando vita a qualcosa di grandioso: Hunter si rivolge ai “pazienti” col sorriso e non con un referto medico, ascolta le loro parole sconnesse e ne fa un gioco, donando aiuto e calore umano. Al ritrovato entusiasmo vanno strette le mura dell’ospedale, così, Patch, comincia gli studi di medicina, convinto di poter ottimizzare al meglio la propria teoria: “Per diventare medici dobbiamo curare il paziente oltre che la malattia!”. Come il vero Adams, anche il Patch di Williams si dimostra impaziente nel cercare quel rapporto diretto col malato: poetiche e drammatiche le scene che lo ritraggono intento a portare sollievo in un reparto di oncologia infantile, dove terapie ed antidolorifici non reggono il confronto con un naso di gomma. Se è facile immaginare quanto l’atteggiamento anticonformista ed aperto dello studente possa aver imbarazzato e sconvolto l’ambiente dotto della medicina, possiamo capire le reazioni scatenate dal suo progetto di costruire un ospedale totalmente gratuito in cui accogliere a braccia aperte chiunque sia bisognoso di cure o conforto, a patto che questi si integri al personale stesso della struttura per offrire, a propria volta, cure e conforto. E’ da quest’idea che prese vita il Gesundheit Hospital, fondato nel 1971, che ancor’oggi è il centro di un attivismo di pensiero e di fatto del tutto avviato. Nella pellicola trovano spazio una critica, malamente velata, al rinomato problema assicurativo americano e una drammatica storia d’amore: Patch si lega profondamente ad una studentessa, Carin, la quale, per poterlo ricambiare, dovrà vincere prima i fantasmi del suo passato .
Nei panni del “medico” Patch, uno splendido Robin Williams capace, ancora una volta, di emozionare anche col sorriso, riuscendo di avvicinare ed amalgamare perfettamente il dramma e la commedia. Si dispiega attorno al protagonista un universo di personaggi/attori che contribuiscono in maniera evidente al successo dell’opera. Philip Seymour Hoffman e Monica Potter danno sfoggio di valido talento, così come si distinguono il giovane Daniel London ed i consumati Bob Gunton e Josef Sommer. Una menzione a parte la merita Michael Jeter: l’attore statunitense si consumò lentamente nella droga e nell’alcol, fino a quando non trovò la morte a causa di un attacco epilettico, nel 2003 (all’epoca aveva già contratto l’AIDS): al suo funerale lo ricordarono Kevin Costner, Tom Hanks e lo stesso Robin Williams.
Alla regia Tom Shadyac trova l’unico dramma della carriera, si era dedicato, in precedenza, e si dedicherà, in seguito, a lavori meno “impegnati”. Vanno ricordati Papamichael, direttore della fotografia, ed il compositore Marc Shaiman, in lizza per l’Oscar di quell’annata.
Il film viene accolto dal plauso della critica e da incassi da record: solo negli USA viene raddoppiata la cifra stanziata per la produzione, circa 50 milioni di dollari. Non è così benevolo Hunter Adams: il medico si lamenterà a posteriori di come la pellicola abbia banalizzato sulla caratterizzazione del proprio personaggio, nel tentativo di mettere in moto una semplice “macchinazione economica”. In particolare, Adams si scagliò contro Williams: “Ha fatto 21 milioni di dollari per fingere di essere me per quattro mesi e non ha dato nemmeno 10 dollari per il mio ospedale gratuito!”
La critica del medico non sembra sminuire la poesia, la forza emotiva di una narrazione appassionata e mai banalizzata da un’ ”eccessiva allegria”. Una pagina eroica della storia del cinema.
VOTO 8/10
Marco Fiorillo
Pier Lorenzo Pisano