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giovedì 27 ottobre 2011

Johnny English Rebourn (2011)


Rowan Atkinson: Sir Johnny English
Gillian Anderson: Agente Pamela Head
Dominic West: Simon Ambrose
Rosamund Pike: Michelle
Daniel Kaluuya: Agente Tucker
Richard Schiff: Agente Fischer
Regia: Oliver Parker
Soggetto: William Davies
Sceneggiatura: Hamish McColl
Fotografia: Danny Cohen
Musiche: Ilan Eshkeri
Scenografie: Jim Clay

A distanza di sei anni dalla sua ultima missione in Mozambico, l’agente britannico dell’ MI7 Johnny English (Rowan Atkinson) trascorre la propria vita in Tibet, tra i monaci con cui allena mente e fisico. Nonostante il pessimo ricordo legato all’ultimo intervento, English viene richiamato in patria dall’agente Head (Gillian Andeson) ed affiancato al giovanissimo Tucker (Daniel Kaluuya): i due vengono inviati ad Hong Kong per indagare circa il possibile omicidio del Primo Ministro Cinese. English si troverà a combattere di nuovo per la Regina, tra vecchi traditori e nuovi amici.
Secondo episodio dell’oramai famosa parodia spionistica, “Johnny English Rebourn” segue l’omonimo precedente del 2003, tentando di arricchire un progetto nato con poche pretese ma egualmente ben riuscito a livello mediatico. Seppure punti tutto sull’ironia dilagante, impersonata dal maestro del genere Rowan Atkinson, il cambio in cabina di regia equivale ad un cambio d’approccio che esuli dal semplice montaggio di scenette divertenti, per preferire un intreccio meglio costruito ed una comicità “più intelligente”. “Il copione era stato sviluppato come thriller e funzionava”-ammette il regista Oliver Parker, che continua- “Quindi la sfida di combinare commedia e brividi diventa ancora più mirata. Ogni scena può essere vista come commedia o come thriller. Direi che si tratta di una storia coraggiosa”. Allo stesso modo, interviene il protagonista Atkinson: “Volevamo fare qualcosa di più sofisticato. Si direbbe una parodia. Ma piuttosto che fare una parodia dello stile spionistico abbiamo preso il mondo dello spionaggio mettendoci più gag all’interno”. Un’idea interessante che comunque ha il merito di condire il tutto di un’ironia che funziona meglio di quella godibile nel primo episodio, tuttavia il fine ultimo non è raggiunto: nel tentativo di buttare tutti gli ingredienti nel calderone, s’è fatta una mistione che non è né zuppa né pan bagnato. Scegliere di portare avanti le due anime del film, seria e faceta, non porta ad compimento totale di nessuna delle due, causa anche di una trama veramente monotona.
Per celebrare il ritorno al Grande Schermo dello spionaggio britannico alla James Bond, viene scelto un cast devoto alla corona della Regina quasi per intero. Motore del progetto davanti e dietro le telecamere è Rowan Atkinson: arrivato al successo con la celebre invenzione della maschera “Mr. Bean”, dimostra di poter adattarsi ad una risata di un gradino superiore. Al suo fianco il “cattivo” Dominic West, ben calato nella parte, e la giovane Rosamund Pike. A dirigerli, Oliver Parker regista londinese famoso per le riduzioni cinematografiche di opere teatrali di Shakespeare e, quindi, collaboratore obbligato di Kenneth Branagh. Unici al di fuori della giurisdizione inglese, Gillian Anderson (che pure ha vissuto a Londra per buona parte della sua vita), esordiente con la celebre interpretazione nella serie “X-Files”, e Richard Schiff.
Messe a parte acrobazie, addominali scolpiti e modi cavernicoli, Johnny English è un eroe tutto risate e brutte figure che non avrebbe bisogno d’altro per riuscire sullo schermo. Perché nel tentativo di rendere serioso l’intreccio se ne perde l’essenza. Bastava un pizzico di linearità ma strafare è la parole d’ordine oggi giorno.
VOTO 5/10
Marco Fiorillo
Pier Lorenzo Pisano

L'amore all'improvviso (2011)


L'amore all'improvviso
Titolo originale: Larry Crowne
USA: 2011. Regia di: Tom Hanks Genere: Drammatico Durata: 98'
Interpreti: Tom Hanks, Julia Roberts, Gugu Mbatha Raw, Cedric the Entertainer, Rami Malek, George Takei, Dale Dye, Peter Scolari, Bryan Cranston, Wilmer Valderrama, Taraji P. Henson, Malcolm Barrett, Bob Stephenson, Jon Seda, Maria Canals-Barrera, Holmes Osborne, Pam Grier, Nia Vardalos, Grace Gummer, Rob Riggle, Ian Gomez, Enuka Okuma, Sy Richardson, Randall Park, Carly Reeves, Tom Budge, Holly Harris, Roxana Ortega, Julia Cho, Claudia Stedelin, Jenifer Cononico, David L. Murphy, Sarah Levy
Sito web ufficiale: www.larrycrowne.com
Sito web italiano:
Nelle sale dal: 28/10/2011
Voto: 5
Trailer
Recensione di: Dario Carta
L'aggettivo ideale: Tedioso
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Omaggio alla Screwball Comedy,la Sophisticated Lady del cinema di Capra,oppure conferma del buonismo ottimistico di Hanks,araldo della consolazione e dell'utopia oltre ogni sogno americano. "Larry Crowne" è l'iperglicemico lavoro di una firma nobile dello spettacolo buono di Hollywood,il segno sicuro del passaggio di Tom Hanks sugli schermi del sorriso benevolo sui visi di ogni età,volo alto dell'America sempre protesa ad afferrare l'Aquila con le sue aspirazioni e i suoi ideali.

Purtroppo però Larry non esiste e neppure chiede memoria della sua offerta,un soffio arioso,un pretesto solo immaginato,come il film che porta il suo nome e che scompare dall'anagrafe dei sogni in celluloide e svanisce nei ricordi di un racconto forse mai narrato.
"Larry Crowne" è uno spettro gentile creato da un americano buono che raccoglie la semente di un Paese che egli vuole raccontare nel teatro onirico dell'innocenza e dell'ingenuità,un uomo talvolta capito e amato,sempre ammirato,a volte respinto quando delude le attese.

Tom Hanks inventa Larry Crowne,lo produce,lo incarna e lo dirige,lo scrive con la collega Nia Vardalos ("Il mio grosso grasso matrimonio greco"),ma di Larry non c'è più traccia quando le luci si riaccendono lavando solo ombre lasciate sullo schermo,è scomparso con Julia Roberts e il suo sorriso. Forse Larry Crowne è l'illusione di un cinema fasullo e posticcio,passatempo per le Lobby dello spettacolo dell'economia,la chimera di un fascino simulatore. Larry non è sincera ingenuità,nè scorcio genuino sui paesaggi della ordinaria quotinianità americana.

Larry Crowne (Tom Hanks),veterano della marina,oggi valido impiegato (cfr. "Cast Away") presso un supermercato,anzichè essere eletto impiegato dell'anno,viene licenziato perchè privo di un diploma di studio. Divorziato e solo,Larry si trova così disoccupato,con un mutuo da estinguere e un futuro tutto da risolvere.
Il suo vicino Lamar (Cedric the Entertainer) un venditore di usato che utilizza il giardino come mercato,lo consiglia di iscriversi ad un college locale,per migliorare la sua posizione ed avere migliori opportunità per il suo avvenire.
Alla scuola,Larry farà amicizie nuove,intraprenderà nuovi studi,deciderà di vendere la sua macchina per acquistare uno scooter per una nuova vita,si unirà ad un gruppo di surreali motociclisti e si innamorerà dell'insegnante Mercedes Tainot (Julia Roberts),infelice moglie di un bieco pornocrate on line.

La parabola di Larry è quella dell'uomo medio e buono,vittima dei meccanismi della società del lavoro e fattosi ancora migliore all'incontro con gente buona. "Larry Crowne" non è un film sulla recessione epocale e non trae spunto da un commento morale sulle violazioni dei diritti della classe lavoratrice,sui tagli al personale e sugli interventi aziendali nei periodi di crisi.
Questo spazio è più riservato a lavori come "The Company Men". Vale più la pena di pensare a "Larry Crowne" come a una malinconica trasposizione di un lavoro adolescenziale indirizzato alla fascia di utenti con età più matura e in cerca d'altro,quasi quadro di un conflitto fra perdita di certezze e strade nuove in vita nuova.

"Larry Crowne" si offre senza corporeità ad una visione sonnolenta e bene educata,un tiepido richiamo a timidi sorrisini compiacenti ma con poco calore e partecipazione,senza guizzi nè spunti nuovi. Il lavoro si svolge come uno storyboard disegnato ad arte,garbatamente ossequiante a un ottimismo fin troppo utopistico e sciropposo,sulle pagine di una commedia televisiva troppo desiderosa di mostrare la sua bella anima che purtroppo resta assente a privilegio di finte magie e stucco per dolci.
Il film cita George Bernard Shaw:"Il cervello dello stolto digerisce la filosofia trasformandola in follìa,la scienza in superstizione,l'arte in pedanteria". Cosa ne direbbe Shaw del cinema che si trasforma in tedio?

Insidious (2011)


Insidious
Titolo originale: Insidious
USA: 2010. Regia di: James Wan Genere: Horror Durata: 97'
Interpreti: Patrick Wilson, Rose Byrne, Barbara Hershey, Angus Sampson, Ty Simpkins, Andrew Astor, J. LaRose, Derick Alexander, Johnny Yong Bosch, Josh Feldman, Philip Friedman, Kimberly Ables Jindra, Caslin Katsaros, Derrick Oliver, Ruben Pla, Lin Shaye, Jeannette Sousa, Chelsea Tavares, Heather Tocquigny, Corbett Tuck, Leigh Whannell
Sito web ufficiale: www.insidious-movie.com
Sito web italiano: www.insidious.it
Nelle sale dal: 28/10/2011
Voto: 7
Trailer
Recensione di: Dario Carta
L'aggettivo ideale: Inquietante
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Binomio prolifico e certamente intelligente,quello fra il regista James Wan e lo sceneggiatore Leigh Whannell che,con il loro ultimo lavoro,"Insidious",mutano il volto della loro paura,traghettandone l'immaginario dalle rive dell'incubo dei "Saw" ai lidi percorsi dai fremiti più viscerali dell'orrore per l'invisibile.
"Insidious" segna il ritorno al cinema che fa paura per quello che non fa vedere,privilegiando il senso dell'attesa e dell'insondabile,all'estetica grandguignolesca e all'enfasi gore benvenuta ai botteghini. Anime inquiete e spettri non sanguinano e l'odore che emanano è quello che sfugge ai sensi primari e scatena l'inferno da dentro.
"Insidious" è un elegante invito al cinema classico delle case maledette,un sortilegio malefico e quasi onirico di atmosfere e sensazioni impenetrabili ,un percorso nel buio dei territori tabù dei silenzi calati sulle certezze sensoriali.
Quando il docente Josh Lambert (Patrick Wilson),sua moglie Renai (Rose Byrne) e i loro tre ragazzi traslocano nella nuova casa,tutto sembra essere tranquillo. Ma il piccolo Dalton (Ty Simpkins) cade da una scala in soffitta e poco dopo precipita in un coma inspiegabile,che la caduta non giustifica. I mesi passano,ma lo stato del ragazzo non cambia nonostante l'intervento dei medici,chiamati a dare una spiegazione.
Strani eventi accadono,non c'è nulla che quadra e ben presto Renai si convince che in quella casa alligna una presenza malvagia che si manifesta in voci,rumori e fatti fuori dall'ordinario.
Sperando di risolvere il problema ,la madre di Josh (Barbara Hershey) si rivolge ad una medium (Lyn Shaye) che,affiancata da due surreali acchiappafantasmi,toglie il velo sotto il quale si cela un antico mistero di anime tormentate,antiche vite,entità estranee e malvage dalle quali Dalton dovrà essere al più presto liberato o lo si perderà per sempre.
Con i suggestivi titoli di testa,il tocco maledetto del brivido di un cinema emarginato e sincero fluttua fra bianchi e neri,animando equivoche inquadrature di una casa già violata nel suo calore dal fiato della paura infrattata. La cinepresa fruga in ogni angolo della casa,fissando in un'immobilità angosciante scale,corridoi,disimpegni,stanze vuote ed oggetti in inquadrature percorse dal silenzioso sussurro dell'attesa e dell'insicurezza. Le porte si aprono,i pavimenti mormorano,le ombre danzano alla cantilena incerta di un mistero mai rivelato,la soffitta è scenario di un segreto non innocente.
Le inquadrature notturne allertano i sensi su una quiete innaturale che avvolge ogni angolo di una casa assopita in un sonno oscuro e agitato,dove luci ed ombre infestano il silenzio che ovatta una minaccia invisibile ma tattile e dove le finestre sembrano occhi su una notte in attesa delle sue vittime.
Nella pletora di taciturne avvisaglie,nulla è superfluo ed emerge una magica regia che porta nel viaggio fantastico di un incubo vissuto fra "Il sesto senso" e "Paranormal Activity",in un lavoro fra Raimi e Carpenter,dove l'Avversario non ha età,non muta con l'ambiente che lo accoglie e lo si vede ballare nelle vesti di un giovane alla musica di un tempo remoto,perchè il Male non ha anni e resta antico come il pericolo che si porta addosso - bello l'omaggio a "Shining" - Il film di Wan è raro nella composizione intelligente di un brano di cinema che veicola puro sgomento,dove esoterismo,mistero e preveggenza si agitano in segnali di un affanno inquietante,come i colori che virano al livido in tonalità cromatiche desaturate e quasi opache,le dissonanze allarmanti degli studi al piano di Renai,ormai incapace di comporre melodie nell'aria malata che stagna fra le pareti di casa sua,i mormorii inspiegabili di ambienti cui viene rubata l'innocenza nel sepolcrale squallore di un'architettura domestica che sembra vecchia.
L'attenzione alla scenografia è acutissima e completa una regia fisica e fortemente aggrappata ai crismi del cinema genuino della paura per l'ignoto,che filtra tra le lame di luce di porte mezzo aperte e si diffonde nell'aria fra le pareti infette che mandano eco senza parole.
I simbolismi carnali di "Saw" sono riversati in "Insidious" in sottili richiami allegorici,come le luci accese di notte sui comodini delle stanze dei bambini,piccole scintille impotenti a vegliare sul sonno oscuro dell' angoscia. Il secondo rullo del film frattura l'esplorazione nell'esoterico del primo tempo e la tensione pare sciogliersi in un intenzionale surrealismo ai margini del grottesco.
Le figure dei ghostbusters,bizzarri John Landis di "Tutto in una notte",i dialoghi nuovi,le proiezioni astrali e le esperienze extracorporee,voltano le pagine di un altro capitolo del lavoro,dove si leggono la satira e l'umorismo nero della commedia sorniona che stempra lo spessore drammatico della prima metà,impostando una sottotrama furba e divergente.
Qui,"Insidious" pare soffrire i sintomi di un'aritmia,quando appaiono maschere astrofisiche,avvengono incontri e dialoghi con uno stravagante aldilà,e trasfigurazioni,ipnosi e trasmigrazioni si altalenano in viaggi nell'Ade fra Omero e Lynch.
La rivelazione pare non sincera o forse affrettata e nel film appare qualche sorriso,benevola accettazione per una completezza non giunta a maturazione. Ma "Insidious" è una splendida ghost story,auspicabile evento nel cinema di genere,raccomandabile iconografia sulla squallida serialità degli horror crepuscolari,insieme ispezione teoretica e metafisica nella dimensione dello spavento ed esperienza sincera della gustazione raffinata di un brano di cinema intelligente e dosato.

A man with style

Titolo originale: Azemichi no Dandy
Giappone: 2011. Regia di: Yuya Ishii Genere: Drammatico Durata: 116'
Interpreti: Hikaru Yamamoto, Jun Yoshinaga, Ken Mitsuishi, Naomi Nishida, Ryo Iwamatsu, Ryu Morioka, Tomorowo Taguchi
Sito web ufficiale:
Sito web italiano:
Nelle sale dal: Presentato ad "Asiatica, Incontri con il cinema asiatico"
Voto: 8,5
Trailer
Recensione di: Francesca Caruso
L'aggettivo ideale: Ilare
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La dodicesima edizione di “Asiatica, Incontri con il cinema asiatico” ha visto un continuo alternarsi di diverse cinematografie orientali. Tra i film giapponesi presentati, c’è stato il bellissimo “A man with style” (Azemichi no Dandy, 2011) di Yuya Ishii.
Nato nel 1983, il giovane regista, in pochi anni, è riuscito a farsi valere nel panorama cinematografico, mostrando le sue doti di narratore. Il film col quale si è diplomato “Bare-Assed Japan” è stato premiato alla PFF Award Competition 2007 e per la pellicola “Decides” vinto il premio come Miglior Regista al 2010 Blue Ribbon Awards.
Dal 2005 ad oggi Ishii ha ampliato la sua attività cinematografica, ricoprendo non solo il ruolo di regista e sceneggiatore, ma anche di produttore e attore.
“A man with style” racconta la storia di Miyata Junichi, che rimasto vedovo, si occupa dei due figli adolescenti, Toshiya e Momoko. I due ragazzi sono stati ammessi all’Università e lasceranno a breve la casa paterna.
Miyata parla poco con i suoi figli, ma vuole il meglio per loro. Il suo amico d’infanzia e di bevute Sanada gli darà una mano. “A man with style” parla del difficile rapporto, che si può venire a creare, tra un padre e i suoi figli dopo la perdita della madre. Viene posto l’accento soprattutto sull’agire di un padre giapponese che, già normalmente, ha poca interazione e contatto fisico con i figli. “I giapponesi non sono molto bravi a esprimere i propri sentimenti in maniera esplicita” ha spiegato l’attore Ken Mitsuishi (durante l’incontro con il pubblico di Asiatica).
Una scena molto significativa, che mostra un cambiamento in Miyata, è quella che si svolge ai bagni pubblici, dove il padre lava la schiena al figlio.
Questo è il primo contatto che i due stabiliscono, che si dimostra sia fisico che emotivo. Esprimono, in tal modo, il bene che provano l’uno per l’altro. Il padre delineato da Ishii è un uomo che si dà da fare per mandare avanti la famiglia, si sente tuttavia solo senza la moglie. Vorrebbe aprirsi ai propri ragazzi, sapere cosa passa loro per la testa e se stanno crescendo bene.
Solo con i figli degli altri sa come deve parlare (come gli sottolinea il suo amico), mentre con i suoi non riesce ad avere un confronto. Tutti e tre stanno soffrendo e affrontano la perdita della moglie/madre ognuno a modo proprio, rinchiudendosi nei rispettivi gusci. La casa di Miyata è fatta di stanze chiuse e dietro quelle porte ci sono tre persone sole che vorrebbero sentirsi più vicine.
“A man with style” è raccontato con ilarità. Miyata e Sanada creano delle situazioni umoristiche, che non permettono allo spettatore di essere malinconico. La commozione arriva nella seconda parte, tuttavia i toni non sono mai drammatici.
I quattro personaggi principali hanno una profondità emotiva, che li avvicina al pubblico, il quale si identifica col loro dolore.
Il regista è riuscito a tratteggiarli egregiamente e il lavoro degli attori ha contribuito significativamente.
Ken Mitsuishi è davvero straordinario nelle vesti di Miyata. È riuscito a rendere al meglio ogni più lieve cambiamento d’umore del suo personaggio. Inoltre i duetti verbali di Mitsuishi e Tomorowo Taguchi possiedono la giusta alchimia e sono spassosi.
Quello realizzato da Yuya Ishii è un film che mescola bene l’ilarità alla commozione.
È intenso e suggestivo, grazie anche alla splendida musica orchestrata da Samon Imamura e Tomoaki Nomura.
In determinati momenti la colonna sonora è di forte impatto emotivo ed esprime, da sola, i sentimenti dei personaggi.

L’Economia della Felicità (2011)



Le parole dell’ “illuminato” giornalista italiano Tiziano Terzani inaugurano la visione. Parole di speranza e di vita intesa come vitalità e voglia di vivere: ecco i protagonisti del documentario realizzato da Helena Norberg- Hodge, in collaborazione con Steven Gorrelk e John Page.
La breve produzione si avvale dell’esperienza diretta della Norberg- Hodge in Ladakh o “Piccolo Tibet”, per arrivare ad una riflessione di più ampio respiro circa l’attuale situazione economica globale. Il Ladakh, uno dei luoghi più elevati e più popolati al Mondo, ha vissuto un ‘esistenza ricca e felice fino alla metà degli anni ’70, fin a quando il capitalismo occidentale travestito da Globalizzazione ne ha invaso i confini, rendendo la popolazione edotta circa povertà e scale sociali, differenze economiche e gerarchie di successo. Il progetto di un’economia globale sbandierato da tutti i Governi mondiali viene presentato come uno spauracchio dalle origini oscure, avente il compito di celare moderni colonialismi e distruttive signorie economiche. Norberg- Hodge smantella pezzo per pezzo le convinzioni più luminose che accompagnano la “nostra” concezione di Globalizzazione. Dimostra come ci renda infelici ed insicuri con le disparità che viene a creare; dimostra quanto distrugga le risorse naturali ed il devastante impatto che ha sulle condizioni climatiche; svela i suoi effetti negativi sul sostentamento e l’incoerente appoggio fornito al Big Business; ne scardina le motivazioni più avvicinabili dal “pubblico medio”, mettendo in evidenza il dissidio che porta con sé.
Sebbene nata in un’ottica positiva e costruttiva, la Globalizzazione, avvelenata negli ultimi decenni dal morbo capitalistico, distrugge le realtà locali, divide le comunità, spersonalizza il singolo. La cura, ammette Norbergh- Hodge, è riportare l’attenzione governativa verso le economie locali, le produzioni territoriali: un processo di Localizzazione che rinsaldi i contatti tra individuo ed individuo e tra gli individui e la propria Terra. Solo in questo modo potremmo limitare i danni arrecati dall’uomo al proprio habitat. Solo in questo modo potremmo ricordare che “ciascuno è qualcuno”.
Vivido e attrattivo, “The Economics of Happiness” (questo il titolo originale) propone una lettura chiara e precisa dell’attuale situazione economica, relazionandosi alle tematiche trattate come problematiche tangibili, fruibili da tutti come situazioni familiari con cui potersi confrontare. Gli autorevoli interventi di personaggi come Vadna Shiva, Chris Johnstone e Pracha Hutanuwatr, le immagini evocative e le musiche rendono l’opera piacevolmente godibile ed assolutamente autorevole ad un tempo.
Motore del progetto è Helena Norberg- Hodge. Formatati in Svezia, Germania, Austria ed Inghilterra, specializzatasi al MIT ed esperta di ben sette lingue, la Norberg- Hodge è una brillante analista dell’impatto dell’economia globale sulle culture e sulle agricolture di tutto il Mondo. I suoi sforzi lavorativi e la sua inventiva culminano nel documentario “The Economcs of Happiness”, di cui è co- regista e produttrice: la pellicola è stata presentata a più di 20 festival internazionali, aggiudicandosi svariati riconoscimenti tra cui il Best in Show al Cinema Verde Environmental Film, l’Arts Festival della Florida e il Best Director Award all’Eko Film Festival, in Repubblica Ceca.
Quando la Celluloide si presta a cassa di risonanza di problematiche così importanti ed urgenti, il Cinema diventa un’espressione di intelligenza oltre che di passione, un’esperienza dal valore incalcolabile. Informa e stimola riflessioni ed interrogativi, un lascito formativo e pienamente meritevole.
Marco Fiorillo
Pier Lorenzo Pisano

martedì 25 ottobre 2011

Paranormal Activity 3 (2011)


Katie Featherston: Katie
Chloe Csengery: Katie bambina
Sprague Grayden: Kristi Rey
Jessica Tyler Brown: Kristi Rey bambina
Lauren Bittner: Julie
Christopher Nicholas Smith: Dennis
Regia: Ariel Schulman, Henry Joost
Soggetto: Oren Peli
Sceneggiatura: Christopher B. Landon

Katie (Chloe Csengery) e Kristi (Jessica Tyler Brown) sono due sorelle che vivono una vita apparentemente tranquilla insieme alla madre Julie (Lauren Bittner) e al suo nuovo compagno Dennis (Christopher Nicholas Smith), cui sono molto legate. Cameraman di professione e videoamatore nel tempo libero, Dennis comincia a disseminare telecamere per casa quando si accorge di strani rumori, che egli collega alla costante presenza dell’amico immaginario della piccola Kristi, Toby. I video che realizzerà metterà la famiglia a parte di un terribile segreto che animerà il loro terrore.
Prequel del prequel del famosissimo mockumentary “Paranormal Activity”, il terzo episodio di quella che ormai può essere considerata una saga si preoccupa di spiegare l’origine del’intreccio raccontato originariamente da Oren Peli, già in parte svelate in “Paranormal Activity 2” diretto da Tod Williams. Ritroviamo le protagoniste dei primi due episodi, le sorelle Katie e Kristi nel 1988, nel periodo dell’infanzia, quando accolsero nelle loro giovani menti i fantasmi che le perseguiteranno per il resto della vita.
Modaiolo fino all’eccesso, “Paranormal Activity 3” si inserisce nei fortunati filoni dei “film reebot/prequel” e della tecnica del falso documentario, facendosi forte di un colpo di scena altrettanto abusato. Se la forma e la modalità posso comunque interessare, il ricorso alla colpevolezza di una demoniaca setta femminile colpevole dell’omicidio dei proprio figli ha veramente stancato. Fortunatamente la facile anticipazione del finale non devia la possibilità di un po’ di sana tensione, ben orchestrata dalla coppia registica Schulman/Joost, che pure si sono trovati davanti a scelte obbligate: il merito sta, appunto, nel mantenere alta una suspance già “abusata” grazie alla sinteticità e ad ottime trovate (su tutte l’artificio della telecamera montata sul sostegno girevole del ventilatore) che rendono questa terza pellicola migliore della seconda.
Forte del successo già precedente costruito dall’operato di Oren Peli, il film, in sole settantadue ore incassa ben 80 milioni di dollari, di cui 54 solo negli Stati Uniti. La trilogia vale la fortuna del regista israeliano che ne realizzò il primo capitolo usufruendo di un budget di soli 15 milioni di dollari.
Le aspettative sono veramente limitate tuttavia la forza mediatica e la curiosità destata dal formato spingono lo spettatore. Di sicuro la fattura non è delle peggiori ma si poteva fare meglio.
VOTO 5/10
Marco Fiorillo
Pier Lorenzo Pisano