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martedì 19 aprile 2011

Limitless

Limitless (2011)

Bradley Cooper: Eddie Morra.
Robert De Niro: Carl Van Loon.
Abbie Cornish: Lindy.
Anna Friel: Melissa.
Johnny Whitworth: Vernon Gant.
Andrew Howard: Gennady.
Robert John Burke: Pierce.
Tomas Arana: Tan Coat.
T. V. Carpio: Valerie.
Patricia Kalember: Miss. Atwood.

Regia: Neil Burger.
Soggetto: Alan Glynn.
Sceneggiatura: Leslie Dixon.
Fotografia: Jo Willems.
Effetti Speciali: Connie Brink.
Scenografie: Patrizia Von Brandestein.
Musiche: Paul Leonard-Morgan.

Immaginate di avere la possibilità di liberare tutto il potenziale della vostra mente, divenendo padroni di ogni singolo campo del sapere. Tutta la conoscenza si dispiegherebbe davanti ai vostri occhi rendendovi capaci di qualsiasi cosa, dei veri “campioni della società”. Davanti a questo dono, vi fermereste davvero a pensare al prezzo?

Eddie Morra (Bradley Cooper) è uno squattrinato scrittore alle prese con un vero e proprio “blocco”, al momento di cominciare la stesura del primo libro a contratto. In preda all’autolesionismo depressivo, Eddie perde anche l’affetto della fidanzata Lindy (Abbie Cornish), stanca dell’ autocommiserazione e dei  fallimenti del giovane. Quando sembra che le cose possano solo peggiorare, ecco l’incontro provvidenziale. Vernon, fratello dell’ex moglie di Eddie, Melissa, gli offre una magica pillola, l’NZT, che può risolvere tutti i suoi problemi: non si tratta di una nuova droga ma di un farmaco capace di attivare tutta la materia grigia, non solo il 20% che utilizziamo comunemente. Gli effetti della medicina non tardano a giungere: Eddie,non solo termina il libro in soli quattro giorni, ma si rende conto di aver accesso a tutti i ricordi raccolti nella propria mente, di poter apprendere un nuovo idioma in poco meno di un giorno; si rende conto di poter svelare i segreti della matematica più complicata, applicandola alle attività più lucrose. In pochissimo tempo la sua vita cambia radicalmente: Eddie diviene un genio dell’alta finanza sicuro e spocchioso che attira l’attenzione di un “mostro sacro” del settore come Carl Van Loon (Rober De Niro), trovando anche il tempo di riconquistare Lindy. Il successo, però, ha un prezzo,e prima di rendersene conto, il giovane talento si troverà immischiato in trame politiche ed economiche legate alla “commercializzazione” del miracoloso farmaco, diventerà il bersaglio di un mafioso russo, anch’egli viziato dalla pillola, e dovrà fare i conti con i devastanti effetti della dipendenza dall’ NZT.

La pellicola, ispirata al romanzo di Alan Glynn “The Dark Fields” edito nel 2002, affronta tematiche forti ed attuali. In una società sempre più apparenza e meno sostanza, sgomita una primordiale ricerca del sapere, che dal “Faust” all’Ulisse dantesco arriva fino alla celluloide di Neil Burger. Come un moderno Prometeo egoista, interessato al proprio successo e non all’avanzamento dell’umanità tutta , il protagonista insegue la conoscenza, la ottiene e ne paga il duro prezzo sulla propria pelle. Dall’altra parte, emerge dal film anche quell’immortale esigenza di continuo avanzamento: l’uomo deve restare al ritmo col progresso, sfruttando a pieno le potenzialità della propria cultura, per erigersi sul tetto del Mondo. Come Nazioni che mostrano le proprio “armate livree”, qui la cultura fa sfoggio di se stessa, dimostrando come la scienza possa superare ogni limite, appunto. “Io l’ho interpretato come un film sull’evoluzione” ammette Bradley Cooper, che continua: “Il quesito principale che abbiamo affrontato è: dove stiamo andando? Io penso che la questione fondamentale è cosa siamo disposti a fare per rimanere al passo coi tempi”.
Nonostante l’arrivo sullo schermo di un’idea finalmente nuova, non è tutto oro quello che luccica. Se Eddie Morra non ha freni una volta ingerita una pillola di NZT, non ha limiti nemmeno Neil Burger dietro la cinepresa: unisce una pluralità di generi (spaziando dal thriller, all’action movie alla fantascienza) a tematiche decisamente numerose(andando dalla cospirazione politica alla mafia russa, dal mondo dell’alta finanza alla dipendenza dalle droghe) rendendo la narrazione, avvincente per la prima parte, sfilacciata e opaca. Anche il finale, oggetto di numerosi cambiamenti a detta dello stesso Cooper, convince veramente poco. A ciò si aggiungono effetti speciali psichedelici e una fotografia scialba, che, se da una parte interpretano gli effetti positivi, prima, e negativi, poi, del farmaco, dall’altra non contribuiscono a creare una buona amalgama visiva.
Le pecche stilistiche non minano il successo della pellicola, accolta benevolmente sia dalla critica che dal botteghino: con un budget di soli 27 milioni di dollari, la Universal ne porta a casa 60, dalla distribuzione in America, e 80 da quella mondiale.

 Dal debutto in “Sex and the City”, al successo televisivo di Will Tippin di “Alias”, fino ai ruoli del grande schermo (vedi “La verità è che non gli piaci abbastanza”, il fortunatissimo “Una notte da leoni” e “A-Team”), l’ormai affermato Bradley Cooper si prodiga in un’interpretazione coinvolgente che facilita enormemente l’immedesimazione dello spettatore nei panni dei due Eddie Morra. Nonostante la sua buona prova, inizialmente, per il ruolo era stato scelto Shia LaBeouf, che ha dovuto rinunciare alle riprese causa un incidente stradale, in cui rimane coinvolto nell’estate del 2008, che gli ha provocato gravi lesioni alla mano. La partecipazione dell’eterno Robert De Niro, nei panni di un austero uomo di borsa, impreziosisce la pellicola. Del rapporto tra i due attori ha parlato proprio Cooper: “Alla fine sul set non abbiamo parlato molto di quello che stavamo facendo (…) Non tutti sanno che lui è un grande patito di mozzarelle e chiedeva a tutti sul set, Philadelphia, di trovargli la migliore della città. Essendo io originario proprio di li, mi sono spremuto al massimo per fargli avere la migliore. Alla fine l’ho reso felice con una comprata in un negozio di nome Caruso”. Un misto di timore reverenziale e ammirazione emerge dalle parole del giovane Cooper al cospetto di un maestro che non è famoso per mettere a suo agio i suoi collaboratori. Abbandonate la sexy lingerie e le mitragliatrici di “Sucker Punch”, ritroviamo Abbie Cornish, marginale ma sempre positiva. La nuova Nicole Kidman lavora per la prima volta con Bradley Cooper, definito, proprio dopo “Limitless”, il nuovo Tom Cruise: che si tratti di una nuova fortunata unione, almeno cinematografica, sarà il tempo a dirlo. In ultimo, una curiosità riguardante Anna Friel (Melissa, nel film): durante la sua partecipazione alla serie “Brookside”, in onda per la televisione britannica su Channel 4, ha portato sullo schermo il primo bacio omosessuale.
Nonostante le scelte narrative ed il camaleontico registro di genere, si tratta comunque di un film godibile sia dallo spettatore di blockbuster sia dal cinefilo più accurato.

VOTO 5/10

Marco Fiorillo
Pier Lorenzo Pisano

Poetry

Poetry (2011)

Regia: Lee Changdong
Sceneggiatura: Lee Changdong











“Poetry” è uscito nelle sale italiane l’1 aprile, ha vinto all’Asian Film Awards di Hong Kong (gli Oscar orientali) il premio per la Miglior Regia e il premio per la Miglior Sceneggiatura, sceneggiatura premiata anche a Cannes.
Il film, nel quale troviamo reminiscenze del passato da scrittore del regista, è una favola colorata ma amara, ambientata in un mondo duro e fin troppo reale, dove l’unico rifugio è rappresentato dalla bellezza alienante e poetica dei fiori.

L’acqua è simbolo di morte in Lee Changdong (basti pensare a “Peppermint Candy”), ed anche in questo caso entra prepotentemente nella narrazione fin dall’incipit, quando è un fiume a trascinare il cadavere di una ragazzina. La protagonista Yang Mija, una nonna giovane e piena di interessi, lavora come domestica presso un vecchio malato ed ha sempre il sorriso sulla fronte, anche quando le è diagnosticato un probabile inizio di Alzheimer. Vive insieme al nipote, un adolescente chiuso in se stesso, col quale ha grandi difficoltà di comunicazione,  e si tiene in contatto telefonico con la figlia, che si è trasferita dopo aver divorziato. Un giorno si iscrive ad un corso di poesia e da allora comincia a cercare di “vedere” davvero dentro e fuori di se stessa, portandosi sempre dietro un taccuino dove annota pensieri poetici. Improvvisamente la sua vita è sconvolta dalla notizia che suo nipote, insieme ad altri, ha violentato una ragazzina per mesi fino a  spingerla al suicidio mostrato all’inizio della pellicola.

Yang Mija ha un rapporto contrastato con l’esterno: la sua ingenuità fanciullesca la rende affascinata dalla bellezza dei fiori e della natura, ma anche incapace di rapportarsi con le persone; proprio come una bambina le sue osservazioni infarcite di sorrisi cadono nel vuoto; quando si tratta di proteggere il futuro di suo nipote ed evitargli il processo, mentre tutti i genitori si organizzano concretamente, lei fugge nel suo mondo, dove ci sono i fiori a fare da scudo.
Ogni volta che la sua mente si sofferma sulla ragazzina morta, il suo sorriso scompare. Supererà lo choc solo quando concretizzerà le sue sensazioni nella foto della ragazzina, trovata e trafugata in casa della madre, che conserverà con cura, sentendosi in debito per la giovane vita ed accollandosi una colpa cosi grande che il nipote non riesce e non vuole nemmeno concepire.
Lentamente i suoi rapporti con le persone si fanno più evanescenti, spesso mediati dall’elemento del telefono, che ad esempio le permette di mantenere l’illusione di un rapporto con la figlia che in realtà non esiste più (e lei ne ha acquisito consapevolezza quando non è stata in grado di dirle cosa ha fatto il nipote). La drammaticità della sua situazione si esplicita nel suo ricordo più felice, che si rivela essere la voce della sorella che chiamava il suo nome: un rapporto umano, cioè quello che le manca di piu. Il legame col mondo esterno si fa sempre più labile, mentre in compenso la donna acquisisce una crescente sensibilità poetica che la mette in contatto con la natura e che si riflette sulle sue osservazioni e annotazioni sempre più filosofiche. Alla fine le rimarrà solo la poesia, ovvero  la sua interiorità, ma forse non è nemmeno questa la soluzione, perché i fiori sono belli, ma possono anche essere finti.
Il film tocca l’apice della sua poesia quando Yang Mija in riva al fiume prende il taccuino per scrivere le sue impressioni, ma è la pioggia a riempirlo, non le sue parole: la natura la sopraffà con la sua bellezza, ed inonda la sua interiorità, facendola sentire vuota dentro. Ed infatti cederà alla grottesca proposta di sesso del vecchio malato.
L’incontro di Yang Mija con la madre della ragazzina ci da uno spaccato della vita in Corea, della bellezza terribile delle campagne, apparentemente incantevoli, nascondono una realtà di sangue, sudore e stenti. La premiata sceneggiatura costruisce alla perfezione l’evoluzione del personaggio di Yang Mija, e seppure il film risulti in certi punti lento, ciò è necessario ai fini della narrazione e dello stile della pellicola stessa. Interessante la carrellata di brevi metastorie delle persone del corso di poesia, che ammicca a “Nuovo cinema paradiso”, film ammirato dal regista. Il finale aperto leggermente schockante ed altamente interpretabile rimarrà sicuramente impresso nello spettatore.

Voto:7

Pier Lorenzo Pisano
Marco Fiorillo

Kramer vs Kramer

Ciclo "Per non dimenticare" Le coppie indimenticabili: Kramer vs Kramer (1979)


Dustin Hoffman: Ted Kramer
Meryl Streep: Joanna Kramer
Justin Henry: Billy Kramer
Jane Alexander: Margaret Phelps
Howard Duff: John Shaunessy
George Coe: Jim O'Connor
JoBeth Williams: Phyllis Bernard
Bill Moor: Gressen, avvocato di Joanna
Howland Chamberlain: Giudice Atkins
Joe Seneca: ospite

Una moglie in crisi, Joanna (Meryl Streep), lascia il marito Ted Kramer (Dustin Hoffman) ed il piccolo Billy (Justin Henry), costringendo Ted a reinventare la sua vita includendo suo figlio, prima escluso e relegato alle cure materne.
Ted è costretto dagli eventi a costruire in fretta il rapporto col figlio e a cambiare epicentro alla sua vita. La sua prima preoccupazione, “portare a casa il becchime”, scende a patti con le esigenze e gli impegni comportati dal mantenere un bambino che soffre per l’abbandono della madre ed è bisognoso di moltissime attenzioni.

Ted Kramer è un brav’uomo: solare, ottimista, tutto preso dal suo lavoro e carico (forse anche in maniera eccessiva) di valori positivi. Manca però della sensibilità necessaria a capire gli errori e la piega che sta prendendo il suo rapporto con Joanna; peraltro le cause della separazione sono marginalmente abbozzate e non approfondite più di tanto. Il fulcro del film si gioca infatti nel rapporto padre-figlio, con tanto di scene stereotipate (la prima volta in bicicletta), e patetiche (la corsa disperata all’ospedale), ma sempre godibili.

Joanna, motore della vicenda, è in realtà un personaggio fantoccio. È usata come causa scatenante, ma su di lei non sappiamo molto. Manca un qualunque lavoro di introspezione e ciò contribuisce a rendercela invisa perché ogni suo comportamento sembra essere irrazionale e frutto di instabilità mentale. Il pubblico è il primo severo giudice dei suoi comportamenti che non ammettono giustificazioni, e qui sta anche la maggior pecca del film: l’unilateralità. Anche se il titolo è “Kramer vs Kramer”, in realtà l’unico punto di vista trattato è quello del padre lasciato e del figlioletto abbandonato, il tutto costruito per creare grande empatia col pubblico ma non per questo togliendo valore al tutto. Si potrebbe infatti dire che il film sia un po’ “furbo” nell’attrarre a se lo spettatore con questi trucchetti ma resta comunque intrattenimento di altissimo livello, premiato da cinque Oscar, (tra cui miglior attore protagonista e miglior attrice non protagonista), quattro Golden Globe e tre David di Donatello.

Durante tutto il corso del film Ted si trova ad affrontare una serie di conflitti di difficoltà crescente, a partire dalla prima colazione immediatamente dopo l’abbandono. Ogni volta che un ostacolo è sciolto, il successivo si erge subito minaccioso, ed è interessante notare come ogni scena cruciale o di contrasto tra personaggi si svolga davanti ad un tavolo, anche qui in un crescendo: il tavolo di un bar, di un ristorante, il banco di un tribunale.
Il conflitto interiore tra l’attenzione da dedicare al figlio e le energie da impiegare nel lavoro si scioglie inaspettatamente in favore del figlio, mostrandoci una sorta di sogno americano rovesciato: Ted, uomo di successo, con un lavoro di grande prestigio, sceglie di essere un buon padre a scapito della sua carriera, inseguendo un sogno molto più condivisibile (e ancora una volta ammiccando al pubblico).

Dustin Hoffman e Meryl Streep guadagnarono entrambi il primo oscar con questa pellicola, regalando due interpretazioni davvero intense e memorabili. In particolare, Dustin Hoffman all’epoca stava realmente divorziando dalla moglie Anne Byrn, e quello che vediamo nel film è una trasposizione della sua vita su pellicola, più che una interpretazione (come lui stesso ha dichiarato).
In sintesi, un film che ha lasciato il segno, con due interpreti formidabili ed una storia costruita per piacere, ma con stile.

VOTO 8/10
                                                                                                                                                           
Pier Lorenzo Pisano
Marco Fiorillo

Mary Reilly

Ciclo "Per non dimenticare" Le coppie indimenticabili: Mary Reilly (1995)

Julia Roberts: Mary Reilly.
John Malkovich: Dottor Jekyll/Mr. Hyde.
Glenn Close: Mrs. Farraday.
Michael Gambon: Mr. Reilly.
George Cole: Mr. Poole.
Michael Sheene: Bradshaw.

Regia: Stephen Frears.
Soggetto: Valerie Martin.
Sceneggiatura: Christopher Hampton.
Fotografia: Philippe Rousselot.
Musiche: George Fenton.
Scenografie: Stuart Craig.

Prendete una bella e giovane donzella innamorata ed un principe gentile e puro di cuore. Ponete tra i due degli ostacoli che li separino dall’agognato congiungimento. Ora aggiungete delle famiglie in perenne disaccordo ed un pizzico di eroismo. Questi sono i classici ingredienti di una storia d’amore. Niente di tutto questo si trova in “Mary Reilly”.
Una serva devota e silenziosamente attratta dal Signore che serve. Uno strano Dottore, che ha decisamente dimenticato il cavallo bianco. Un’ombra pericolosa e misteriosa che aleggia tra i due.
Amore e Male si mischiano pericolosamente, mostrandoci come la “Bella” possa innamorarsi di una “Bestia”, che cova nel suo stesso petti i germogli della propria maledizione.

In una Londra lugubre e nebbiosa vive il Signor Henry Jekyll (John Malkovich), apprezzato Dottore oltre che uomo stimato e conosciuto in città. Tuttavia, da quando una strana “malattia” lo ha colpito, si è ritirato nella solitudine del suo laboratorio, immergendosi in esperimenti della più strana natura. La sua casa, un tempo luogo di ritrovo festoso, è animata solo dai fedeli domestici, tra cui anche la giovanissima Mary Reilly (Julia Roberts). Per quest’ultima sembra non esista la fatica delle dure giornate di servizio, alleviate dall’ingenuo affetto e dalla curiosità che prova nei confronti del Dottore, che pure sembra mosso da sentimenti verso la serva, ma non ha tempo di dedicarvisi preso com’è dalle sue ricerche. Provato dalla malattia e carico di lavoro, Jekyll richiede l’aiuto di un “giovane di qualità non comuni” , Edward Hyde (Jonh Malkovich). Da subito, si mostra inspiegabile il motivo dell’avvicinamento dei due: Jekyll sempre pacato e dai modi ineffabili, Hyde sgarbato e di cattivo gusto. Dal momento in cui Hyde fa la conoscenza di Mary, comincia a sviluppare verso di lei una morbosa attrazione. La situazione diviene critica quando lugubri avvenimenti tingono di rosso le strade della capitale, lanciando un’ombra sulla dimora del Dottore. Il colpevole viene individuato: si tratta di Hyde che Jekyll tenterà di difendere, prima, e di allontanare, poi, per proteggerlo. Liberarsi del giovane collaboratore, si scoprirà operazione assai difficile, e a farne le spese saranno proprio Mary e Jekyll.

 La pellicola trae ispirazione dalle pagine di “La governante del Dottor Jekyll” di Valerie Martin, a sua volta ispirato dal romanzo di Robert Louis Stevenson “Lo strano caso del Dottor Jekyll e Mr. Hyde”, edito nel 1886.
Come il libro della Martin, il film integra la famosa storia di Stevenson, arricchendola di un nuovo punto di vista: le vicende sono seguite partendo dalla figura di una timida e servizievole domestica del Dottore, Mary Reilly appunto, che sarà polo delle attenzioni di Jekyll, prima, e di Hyde, poi, facendosi testimone di terribili eventi.

Analisi psicologica, thriller noir ed horror ad un tempo, il film si immerge nei più profondi recessi dell’anima umana. In ogni cuore alberga sia il Male che il Bene ed è posto l’accento su quel naturale sdoppiamento della coscienza umana, indagato in maniera così approfondita da Stevenson nelle pagine che lo hanno portato al successo. Il Dottor Jekyll è afflitto da una grave malattia, “una frattura che gli ha lacerato l’anima”; egli è consapevole della sua duplice natura, ma invece di rifiutarla, la libera dalla sua prigione di carne, affascinato dalla possibilità di essere tutto ciò che non è mai stato.
 “Io sono il bandito e lui è solo la caverna in cui io mi vado a rifugiare”: le battute di Malkovich testimoniano non tanto una spaccatura bensì un avvicendamento delle due parti.
In questo modo, Jekyll, dà vita al suo “alter ego” Edward Hyde, che rappresenta il superamento di quei limiti di cui non si è mai liberato.
“Hyde è ciò che vorresti essere. La parte di te diversa da te”, nelle parole del regista Stephen Frears si coglie l’essenza di questa duplicità. Come il giorno e la notte, i due uomini si alternano sulla scena, così simili e così diversi, l’uno gentile, assennato e studioso, l’altro violento e sgradevolmente sopra le righe. Una trasformazione tendenziosa verso una delle due anime non può avvenire, l’una vive solo se l’altra continua a vivere, testimoniando proprio la presenza di due cuore che battono all’unisono nell’uomo. Abbracciare le tenebre o liberarsi anche delle propria parte buona, questa è la scelta che è chiamato a fare Jekyll/Hyde nella pellicola.
Protagonista di questo dramma psicologico è John Malkovich, diretto da Frears, che caratterizza in modo esemplare un soggetto spesso riproposto sul grande schermo: ne fa un uomo affascinante e tenebroso, dalla grande carica erotica, oltre che contraddistinto dalla solita depravazione.
A congiungere le due parti, l’amore che provano per Mary, l’unica che possa placare quella rabbiosa marea che invade le loro anime. Jekyll non dichiara mai i propri sentimenti, dimostrandosi amante tenero e nascosto; Hyde non fa segreto della sensuale attrazione per la domestica. Allo stesso modo, Mary è fortemente attratta sia dal Dottore che dalla sua malvagia controparte, testimoniando ancora una volta l’impossibilità di ricongiungere le facce di una stessa medaglia. La giovane serva ha già conosciuto il “male” nel corso degli anni, figlia di un alcolizzato e violento padre che non mancava di picchiarla e, probabilmente, di abusare di lei, ma mai ne era stata attratta così fortemente, prima di incontrare il Dottore. Più dell’evidente sdoppiamento di Jekyll in Hyde, l’amore di Mary per l’unica essenza costituita dai due dimostra quella naturale compresenza di Bene e Male in ogni uomo.
Emerge, dalla pellicola, una concezione della vita meschina e dolorosa, perfettamente rappresentata dalle atmosfere pesantemente austere e buie. Alla morte della madre, Mary, riferendosi alla morte: “Misera ricompensa per una vita di duro lavoro”: permane un’attesa per la morte, come unica possibilità di cambiamento in questa valle di lacrime che è la vita.
Nonostante l’innovativo punto di vista, il risultato non sembra essere dei migliori. La storia è, si, raccontata “da Mary”, ma manca la suspence, un percorso verso la scoperta della verità sul mistero che cela il Dottore: Mary sembra sempre consapevole del fatto che si tratti della stessa persona, e forse questa scelta permette di enfatizzare ancor di più l’accettazione di questa spaccatura, ma la pellicola ne perde in narrazione e brillantezza.

Prima di andare avanti, due curiosità.
Oltre che in “Mary Reilly”, in altre due riproposizioni cinematografiche viene inserita una storia d’amore, di cui è privo il romanzo di Stevenson: “Il Dottor Jekyll” (1931), di Rouben Mamoulian, presenta la relazione tra Jekyll e Muriel Carew, figlia di quel Danvers Carew, parlamentare vittima di Hyde. In “Il Dottor Jekyll e Mr. Hyde” (1941), di Victor Fleming, viene proposto, invece, l’amore tra il Dottore ed una misteriosa cameriera: che si possa parlare di contaminazione, non ci è dato sapere.
In secondo luogo, va ricordato che nel romanzo, Hyde appare assai diverso da Jekyll, fisicamente parlando: si tratta di un uomo più giovane (proprio perché la parte malvagia di Jekyll ha visto la luce di recente), basso, con braccia corte e particolarmente villoso. L’aspetto di Hyde è stato reinterpretato più volte, sia su celluloide che su carta, in particolare nei disegni dei fumettisti della Marvel (in cui compare un omonimo supercriminale): diviene prima un gigante dai tratti scimmieschi in “La leggenda degli uomini straordinari”, affiancando Sean Connery ed altri supereroi, e poi un mostro deforme e muscoloso contro cui combatte Hugh Jackman nel prologo di “Van Helsing”. Inoltre, ha ispirato la nascita del “Golia Verde”, Hulk.

Il successo del romanzo, viene ripagato da una buona riproposizione cinematografica, arricchita da un cast e dall’ entourage tutto, che ne hanno fatto una delle riproposizioni più riuscite.
John Malkovich impersona con intensità e realismo i panni del gentiluomo e del violento, dimostrando ancora una volta tutto il talento, sviluppato durante la lunga esperienza di teatrante. Julia Roberts risulta assolutamente adatta alla parte fin dalle prime scene: dopo aver raggiunto la fama mondiale con “Pretty Woman”, riesce anche nella prova di caratterizzazione, preparandosi al record del 2001, raggiunto con “Erin Brokovich, la forza della verità”, con cui si aggiudicata in una sola volta, BAFTA, Sag Awards, Golden Globe (per miglior film drammatico) e Oscar come migliore attrice non protagonista: la prima donna a raggiungere un tale risultato! Una variopinta Glenn Close, porta colore nel grigiore della Londra “frearsiana”, fornendo un’altra buona prova; ciò vale anche per Michael Gambon, meglio conosciuto dai più come il saggio Albus Silente (almeno dal 2004, anno in cui ci ha lasciato Richard Harris, primo interprete dello stregone). Una curiosità proprio su Gambon: nel 1970 rischiò di vestire i panni dell’agente Bond dopo George Lazenby, ma il progetto non venne mai portato a realizzazione.
Un rodato entourage completa lo staff: sul set di “Relazioni pericolose” (1988) si erano già conosciuti il regista, Sthephen Frears, lo sceneggiatore, Christopher Hampton, vincitore dell’Oscar per la migliore sceneggiatura non originale proprio per la pellicola in questione, e il tecnico della fotografia, Philippe Rousellot. Ricordiamo, inoltre, che nel cast di “Relazioni pericolose” figurano proprio John Malkovich e Glenn Close. Un cenno va fatto anche alle scenografie di Stuart Craig, che permettono la resa perfetta delle atmosfere cupe e misteriose del film; costituisce un vero tocco di inventiva, la costruzione del laboratorio anatomico del Dottore come il palcoscenico di un teatro, in cui Jekyll può mettere in scena il delirio da cui è afflitto.
Nonostante non aggiunga niente di nuovo al capolavoro letterario, si tratta, come abbiamo detto, di un’ottima riproposizione, forte ed intensa nell’esposizione del dramma, meno brillante nella narrazione.

VOTO 6/10



Marco Fiorillo
Pier Lorenzo Pisano