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mercoledì 25 maggio 2011

The Fast and The Furious 5 (2011)


Vin Diesel: Dominic Toretto
Paul Walker: Brian O’Conner
Jordana Brewster: Mia Toretto
Dwayne Johnson: Agente Luke Hobbs
Elsa Pataly: Agente Elena Neves
Tyrese Gibson: Roman Pearce
Ludacris: Tej Parker
Sung Kang: Han Lue
Gal Gadot: Gisele Harabo
Matt Schulze: Vincent
Tego Calderon: Tego
Don Omar: Rico
Joaquim De Almeida: Herman Reyes
Eva Mendes: Agente Monica Fuentes
Produttore Esecutivo: Vin Diesel
Regia: Justin Lin
Soggetto: Chris Morgan
Sceneggiatura: Chris Morgan
Musiche: Brian Tyler

Il pranzo della domenica profuma tutta la casa. La famiglia si riunisce intorno allo stesso tavolo, festante e amorevole. Si ricordano i tempi passati, i vecchi attriti, si consolidano legami, se ne creano di nuovi, si accolgono i nuovi arrivati. Ecco a voi la grande “famiglia americana”, bagnata dal sole del barbecue. Peccato che l’album dei ricordi lo passino al telegiornale della sera.
Dom Toretto (Vin Diesel) viaggia verso l’ennesima prigione, quando il fedele compagno Brian O’Conner (Paul Walker) e la sorella Mia Toretto (Jordana Brewster) arrivano a tutto gas ad aiutarlo, lanciandosi in una fuga quanto meno disastrosa. I tre possono riunirsi, poco dopo, a Rio de Janeiro, dove ritrovano il comune amico Vincent (Matt Schulze), con il quale mettono in atto l’ennesimo colpo: questa volta si tratta di rubare delle macchine per il politico più influente della capitale, Herman Reyes. Le sue mani sono in pasta un po’ ovunque, come testimonia il vero obiettivo del furto: un cip contenuto in una delle automobili, in cui sono testimoniati e catalogati tutti i loschi interessi di Reyes. Toretto e compagni, scoperto il cip, si rendono conto di avere l’opportunità di chiudere in bellezza la criminosa carriera per poi ritirarsi nella clandestinità dell’estero. Ma per attingere dalle tasche dell’uomo più potente di Rio, serve mettere in piedi una squadra già rodata. Ecco, così, ritornare il buffone Roman (Tyrese Gibson), Teji (Ludacris), il nipponico Han (Sung Kang), la bella Gisele (Gal Gadot) e la coppia Tego (Tego Calderon)- Rico (Don Omar). Purtroppo, la nuova brigata deve ancora fare i conti, oltre che con le forze lecite ed illecite di Reyes, col mastino dell’ FBI Luke Hobbs (Dwayne “The Rock” Johnson), inviato a Rio col preciso compito di trovare e “fermare” Toretto e l’ex agente O’Conner.
Correva l’anno 2001 quando venne portato sul grande schermo il primo capitalo dell’ormai famosissima saga dei “Fast and Furious”. La pellicola nasceva come prodotto autonomo, rientrante in quella categoria d’intrattenimento più legata all’home video che alle sale cinematografiche. Eppure, il film diretto da Rob Cohen diede avvio ad un fenomeno inarrestabile. Dal primo al secondo capitolo, diretto da John Singleton, la vicenda si arricchisce della presenza dello scorbutico Roman Pierce/Tyrese Gibson e della bellissima Monica Fuentes/Eva Mendes che affiancano Brian in una nuova indagine sotto copertura, dopo quella che portò il giovane poliziotto nella casa di Dom Toretto, assente in questo frangente. Si passa al terzo capitolo, in cui ci spostiamo di location e conosciamo nuovi protagonisti: questa volta, il pilota è Sean Boswell/Lusac Black trasferitosi a Tokio causa la passione per la guida “rischiosa”. Ad un cambio così importante corrisponde il passaggio di consegne, da Singleton a Justin Lin. L’asiatico regista, al completamento di questo terzo atto, si impegna alla continuazione della serie, incidendovi la sua personalissima firma. Prende vita, così, il quarto capitolo, nel quale rincontriamo i signori della strada Toretto e O’Conner , impegnati in una nuova “indagine”, motivata, in particolar modo, dalla morte di Letty Ortiz/Michelle Rodriguez, storica fidanzata di Dom. Le vicende di questo “Solo parti originali” si concludono con l’arresto di Dom e con il salvataggio preannunciato e realizzato, “subito dopo”, nell’ultimo atto, ancora affidato a Lin. È in quest’ultima parte che si consuma il vero cambiamento della saga: abbandonato lo sporco mondo dei garage, regni del tuning, e il brivido delle sfide al nos, Toretto e Brian riuniscono la “grande famiglia”, che hanno costruito in 10 anni di avventura su strada, con cui preparano un’articolata quanto spericolata rapina che può valere la salvezza e la serenità per tutti loro, in special modo per Brian. La vicenda sembra richiamare troppo fedelmente un’altra saga di gran successo, incentrata sulle avventure di Danny Ocean e dei suoi undici, poi dodici ed infine tredici compagni, impegnati rispettivamente in tre complicate e mirabolanti rapine: la riunione della banda e le scene che vedono la preparazione del colpo, fanno sentire una vicinanza troppo accentuata e, soprattutto, lontana dal progetto originario dei “Fast and Furious”: Lin sembra volersi uniformare a quel filone da action- movie violento e caotico, alienando l’anima automobilistica che tanto aveva appassionato i fan. Al di là di questa scelta, più o meno condivisibile, la pellicola non chiarisce due dubbiosi ritorni ma di questo non sveliamo nulla.
Padre illegittimo del progetto, figlio naturale dell’inesauribile penna di Chris Morgan, il massiccio Vin Diesel ritorna ad impersonare le “canottiere” di Toretto, dimostrando quanto la linea di confine tra Vin e Dom sia alquanto sottile. Un altro veterano della saga è Paul Walker, che deve alla sua partecipazione a “Fast and Furious” il successo raggiunto durante la sua carriera. La coppia è affiancata, come detto in apertura, dalla variopinta famiglia che hanno messo su nel corso degli anni, cui si aggiungono Dwayne “The Rock” Johnson, l’unico a poter contrastare la prestanza fisica di Diesel, ed Elsa Pataly; particolare è la partecipazione del rapper Ludacris e di Tego Calderon e Don Omar che hanno partecipato alla realizzazione della colonna sonora degli ultimi due capitoli.
Il regista Lin raggiunge un altro grande successo di pubblico: solo in Italia, il film ha incassato ben 8.518.065 di euro, rimanendo al vertice della classifica dall’uscita, due settimane fa. I fan hanno ricevuto un ulteriore regalo: sono stati già informati della produzione di un ulteriore atto della saga, di cui informa lo stesso Vin Diesel nell’intervista registrata a seguito della presentazione romana. Alla domanda “si potrebbe girare un Fast and Furious a Roma?”, l’attore risponde: “Sarò onesto. Nell’ultimo giro promozionale a Roma nel 2009, mentre entravo a Roma dall’aeroporto, non potevo fare a meno di immaginare a come sarebbe stato avere Dom Toretto in una muscle car in corsa lungo l’Appia Antica. Quella strada è così unica, così perfetta per un film, sarebbe una scena eccezionale. Magari in futuro, porteremmo la serie anche lì!”
Che sia Rio o Roma, che si tratti di corse clandestine o di una rapina, prepariamoci alla prossima dose di adrenalina.
VOTO 4/10
Marco Fiorillo
Pier Lorenzo Pisano

lunedì 23 maggio 2011

The Tree of Life (2011)


Brad Pitt: Mr. O’Brien
Sean Penn: Jack
Jessica Chastain: Miss. O’Brien
Fiona Shan: Nonna O’Brien
Kari Matchett: ex compagna di Jack
Joanna Going: moglie di Jack
Regia: Terrence Malick
Sceneggiatura: Terrence Malick
Fotografia: Emmanuel Lubezki
Musiche: Alexandre Desplat

“The Tree of Life” si apre con una citazione della bibbia, quasi pascaliana, che recita pressappoco questo concetto: “L’uomo non è niente”, e dà un’importante indicazione sul binario che seguirà il film, introducendoci in un’atmosfera (anche visivamente) mistica e riflessiva. Subito dopo una morbida voce femminile snocciola postulati sulla vita nell’universo.
Fratello e Madre, la via della Natura e la via della Grazia. Non c’è un protagonista definito della vicenda, o meglio c’è ma si confonde nella moltitudine delle molteplicità dell’universo. Ogni singola goccia dell’oceano è parte integrante della storia.

Un lutto improvviso colpisce una famiglia degli anni 50: la morte di uno dei tre figli. Il ricordo della tragedia oscura tutti i rumori del mondo esterno e lascia ai personaggi solo il vento della loro angoscia interiore, e questa è una prima caratteristica del film: i suoni e le musiche hanno un importantissimo significato ai fini della comprensione della pellicola, sono percepiti in maniera soggettiva, a seconda di chi ascolta.

Durante i primi minuti del film, i personaggi principali, la madre (Jessica Chastain), il padre (Brad Pitt) ed i due figli, non sono mai ripresi in volto ma sono accompagnati da inquadrature spesso storte e angolate dal basso o dall’alto. Anche questa è una caratteristica del film: le inquadrature accompagnano i personaggi a seconda della loro altezza (i bambini) o della loro visione del mondo, o per sottolineare come la vicenda sia un racconto interiore. La natura fa parte del racconto ed i personaggi fanno parte della natura, quindi non serve inquadrarli con precisione, è tutto una sorta di sogno sfocato ad occhi aperti, fuori dal tempo.

Le preghiere rivolte a Dio dalla madre, la prima battuta del padre “Stiamo bene”, le massime tanto vere quanto spietate di una donna che cerca di confortare la famiglia, il silenzio, i tenui suoni della natura, delle foglie mosse, il fratello perduto idealmente rappresentato da un cero blu (il colore della pace). Poi un salto nel futuro, dove il figlio maggiore, (Sean Penn), è cresciuto ed è realizzato, ma i ricordi si sovrappongono costantemente alla realtà, visivamente o acusticamente. Il passato diventa un tempo rimpianto ed irraggiungibile, il candore del fratello simbolo di perfezione. Questa è un’altra cifra del film: la sovrapposizione, di suoni, immagini, concetti, ricordi, parole. Come il ricordo delle prime domande sul senso della vita, sul senso dell’ingiustizia nel mondo: “Signore perché? Dov’eri?” e altre ingenue riflessioni esistenziali si affollano mentre sullo sfondo sfila Dio e la sua magnificenza multicolore di galassie, accompagnato dalla musica delle sfere celesti. Una serie di immagini che compongono l’insieme. Ma in questo caso l’insieme è l’universo stesso.

Il film sembra fare sua una massima che potrebbe considerarsi la chiave di lettura della pellicola: “Se volessimo preparare una torta di mele partendo da zero, dovremmo prima inventare l’universo”(Carl Sagan). Questo è il maggior pregio ed il maggior difetto del girato: le immagini che si susseguono sullo schermo vanno dalle cellule più infinitesimali alle galassie più aliene, ci mostrano l’infinita complessità e vastità dell’universo, l’inimmaginabile piccolezza dell’uomo e delle sue sorti, l’occhio di Dio. Il film cerca di abbracciare e contenere Dio stesso al suo interno, e per poterlo apprezzare appieno bisogna lasciarsi andare, stare al gioco e credere che l’infinito sia li davanti a noi, racchiuso in una pellicola. Metafisico, estetico, un piacere per gli occhi, un’opera sicuramente ambiziosa, forse troppo, ma comunque coraggiosa.

Un altro grande pregio del film, dato dalle caratteristiche tecniche sopracitate, è la grande immedesimazione che crea con il personaggio del bambino maggiore, di cui sappiamo tutto: lo abbiamo osservato sin dalla creazione della vita, fino alla sua nascita. Abbiamo sorriso vedendo la sua infanzia, senza parole, magica e colorata da canzoni gioiose. Abbiamo scoperto come lui vedesse il padre: solo due mani e una voce imperiosa che scende dall’alto.

Crescendo i suoni indistinti fanno sempre più spazio al dialogo ed apprendiamo del rapporto contrastato col severissimo padre che proietta tutto quello che avrebbe voluto essere nei suoi figli che invece vorrebbero somigliare alla madre, che sprizza bontà, ingenuità e amore, valori semplici e condivisibili.

Il padre, che ha soffocato le sue passioni (la musica) e che vive rincorrendo l’illusione di poter un giorno essere un “grande uomo”, cresce i figli con disciplina inflessibile, ottenendo il loro odio, e creando in loro insofferenza verso il mondo degli adulti, ma raggiungendo anche il suo scopo: i due fratelli parlano attraverso le frasi paterne, e il fratello maggiore lo supera, essendo in grado di rinfacciargli i suoi errori nei loro confronti e nei confronti della madre.

La partecipazione e la graduale immedesimazione col personaggio del fratello maggiore è sconcertante, arrivando a farci comprendere il suo stesso modo di ragionare e la sua costruzione mentale del mondo. Lo spettatore padroneggia il “soggettivo”, proprio quello che era stato definito dal padre “quello che puoi dimostrare solo tu”.

Da sottolineare anche il valore delle interpretazioni: la madre, quasi un angelo: “Amate tutti, perdonate”, “L’unico modo per essere felici è amare: se non ami, la tua vita passerà in un lampo”, frase che si concretizza nella figura del padre che solo tardi realizzerà la bellezza della natura ed il tempo che ha perso a non apprezzare ciò che già aveva. Il figlio minore, che sonda il mondo con la sua mano e che, più simile alla madre, esprime fiducia verso tutti. Il figlio maggiore, che è diventato un “grande uomo” e vive tra i ricordi del fratello perduto.

In tutto il film spesso Dio è invocato, a chiedere spiegazioni del mondo, ma non risponde mai. Ma quando invece di invocare Dio, si invoca “Fratello. Proteggici. Guidaci. Fino alla fine dei tempi.” finalmente c’è una risposta. Il problema era nella domanda: non bisogna invocare l’esterno, l’universo, il tutto, ma, kantianamente, l’infinito dentro di noi, il nostro passato, il “Fratello”. Il fratello maggiore ormai cresciuto affronta il viaggio finale nella soggettività, le immagini si affastellano, il tutto è molto onirico ed ipnotico. Il “Fratello” si identifica anche nel sole, ed in effetti il sole è presente in tutta la pellicola, spesso i suoi raggi lambiscono i personaggi.

“The Tree of Life” è la trasposizione di un’estasi mistica, tenta di ricreare l’esperienza di Dio. Usciti dal cinema viene voglia di stare in silenzio e contemplare, le immagini continuano a tornarci in mente. Un film che non è destinato a rimanere in sala.

Voto:8/10

Pier Lorenzo Pisano
Marco Fiorillo

domenica 22 maggio 2011

Rosencrantz e Guildenstern sono morti

Ciclo "Per non dimenticare": Coppie in costume

Rosencrantz e Guildenstern sono morti (1990)

Gary Oldman: Rosencrantz
Tim Roth: Guildenstern
Richard Dreyfuss: Capocomico
Joanna Roth: Ophelia
Iain Glen: Amleto
Donald Sumpter: Claudio
Joanna Miles: Gertrude

Regia: Tom Stoppard
Soggetto: Tom Stoppard, William Shakespare
Sceneggiatura: Tom Stoppard
Fotografia: Peter Biziou
Musiche: Stanley Myers
Scenografie: Vaughan Edwards, Ivo Husnjak

“A qualcuno tocca di recitare e a qualcun altro di guardare e pagare. Sono due facce della stessa medaglia o, per meglio dire, la stessa faccia di due medaglie”, queste le parole recitate nel proemio della pellicola. In questa “vichyssoise verbale che vira verso il verboso” si può scorgere il motivo trainante dell’opera: è la vita che si fa rappresentazione teatrale, che a sua volta si fa pellicola. Ci si avvicina a smarrirsi, ma se è questo il vero disorientamento, allora lasciamoci trasportare.

Due insoliti compagni, Rosencrantz (Gary Oldman) e Guildenstern (Tim Roth) vagano a cavallo, consci della propria meta ma senza alcun ricordo circa il motivo del loro viaggio e la loro vita passata: ricordano i loro nomi, ma non sanno quale appartiene a chi. Nel mentre, si imbattono nella carovana di un gruppo di attori di tragedie che, senza troppe cerimonie, imbastiscono il proprio palcoscenico e invitano i due compagni a godersi lo spettacolo e a prendervi parte, se lo desiderano.  L’invito mosso dal capocomico (Richard Dreyfuss) non viene disatteso. Rosencrantz e Guildenstern giungono al palazzo di Elsinore, in Danimarca, alla corte del nuovo Re Claudio (Donald Sumpter), zio del principe Amleto (Iain Glen) e prossimo sposo della madre dello stesso, Gertrude. I due compagni, apprendono, così, la propria missione: sono stati convocati a palazzo dal Re in persona, che, preoccupato per Amleto e per il suo atteggiamento al limite della pazzia, affida loro, amici di vecchia data del principe, il compito di svagarlo e di comprendere i motivi del suo disagio. I colloqui col giovane sembrano non portare i risultati sperati, ma, almeno, i due riescono a distrarlo, consigliandogli di assistere alle messe inscena dei teatranti incontrati lungo la strada, giunti ad Elsinore. Quando si palesa il movente di così tanto squilibrio, l’amore non corrisposto della giovane Ophelia (Joanna Roth), ormai è troppo tardi: Claudio, preoccupato più per la sua persistenza sul trono, mette Amleto su una nave per l’Inghilterra, chiedendo a Rosencrantz e Guildenstern di accompagnarlo e consegnare al Re una missiva. Nonostante la storia sembri ormai conclusa , i due dovranno ancora fare i conti con un epilogo “surreale”.

“Rosencrantz e Guildenstern sono morti” è la trasposizione cinematografia dell’omonima tragicommedia teatrale di Tom Stoppard, che ne cura anche la realizzazione sul grande schermo, scritta in un unico atto nel 1964, per divenire un’opera in tre atti messa in scena per la prima volta nel 1966. A sua volta, Stoppard, si era ispirato alle vicende di due personaggi secondari della tragedia “Amleto” di William Shakespare, facendone dei protagonisti prima in teatro e poi sul grande schermo, nel 1990.
L’opera, in entrambe le sue forme, supera il piano della regolare narrazione per approdare a nuovi e meno tangibili risultati. Fin dall’inizio, Rosencrantz e Guildenstern, nel tentativo di motivare la mancanza di ricordi della propria vita fino a quel momento, affrontano motivi classici che hanno permeato la cultura letteraria: nel lanciare innumerevoli volte una moneta, questa ricade sempre mostrando la “testa”, ciò è motivo di discussioni riguardo il ruolo della fortuna nella vita. Poco dopo, hanno la possibilità di fugare i dubbi relativi le proprie origini ed il proprio passato, tuttavia il loro destino non è quello di fermarsi adesso (chiariremo tutto a tempo debito): nel momento in cui scelgono di collaborare con gli attori incontrati lungo la strada, la vicenda  diviene una surreale opera teatrale, di cui nemmeno i due compagni hanno sentore. Vengono improvvisamente trasportati al castello di Elsinore. Ne visitano le stanze, tutte simili a palcoscenici tra quali Rosencrantz e Guildenstern sembrano spostarsi senza meta, come paralizzati sulla “scena” fino al prossimo atto. Ne approfittano per continuare la propria opera di cultori ed intellettuali. Rosencrantz, in particolare, compie le esperienze più interessanti: prima sperimenta la forza di gravità di Galileo, poi mette alla prova i vasi comunicanti di Archimede, quindi una mela gli cade sulla testa, come se fosse Newton; ma non si limita a questo: costruisce il modello di un motore a scoppio col torsolo di una mela e un rudimentale aeroplano di carta. Tutte le volte che è vicino all’enunciazione del principio che regola i suoi “esperimenti”, Rosencrantz sembra titubare, come a voler suggerire quella verità che verrà carpita solo a film concluso. Caratteristica di questa prima parte, la partita al gioco delle domande, che ha luogo su un primitivo campo da tennis: Stoppard ne approfitta per dimostrare le enormi qualità di sceneggiatore e teatrante, che non manca di mettere in mostra in tutta la pellicola. Lo svolazzare di spartiti segna il movimento della scena: così dal castello il palcoscenico si sposta sulla nave (quando l’arazzo dietro il quale i compagni spiano la conversazione tre Amleto e sua madre, viene abbassato a mo di sipario davanti ai loro occhi): i due ormai spaesati compagni, cominciano ad interrogarsi sulla fine delle proprie avventure. Dovrebbero portare alla memoria le parole che il capocomico aveva pronunciato durante uno spettacolo nel palazzo di Elsinore: “Per i buoni finisce sempre bene, per i cattivi finisce sempre male”, ma comunque il sipario cala solo quando tutti quelli che devono morire, sono trapassati. In vero, proprio durante la rappresentazione suddetta, gli attori mettono in scena le vicende future della corte di Danimarca e il fato dei due amici. Abbandonare la scena risulta impossibile ai due, se non dopo la loro morte: la loro impiccagione porta a termine la narrazione e riporta, almeno idealmente, alla narrazione vera e propria. Rosencrantz e Guildenstern hanno vissuto il dramma della vita dell’attore, dimentico della propria stessa persona quando mette piede sul palco, costretto a prestarsi stoicamente alla continuazione della storia, dandosi al proprio pubblico, il cui unico comando è l’unica verità, oltre alla trama. Si tratta di un esercizio di teatro nel teatro: viene marcata a chiare tinte una linea di demarcazione tra la realtà ed il palcoscenico. Nonostante ciò, sembra ci sia comunque un alito di vicinanza sui due piani, poeticamente rappresentato dalla lacrima che scorre sulla guancia di una marionetta, utilizzata durante l’ennesima rappresentazione al palazzo.

Un piacevole ritorno per Gary Oldman, un’ottima avventura per Tim Roth: entrambi, forti delle mirabili qualità di caratteristi, si prodigano in una prova eccellente, dimostrando un talento che troverà largo consolidamento nel corso del tempo. Condividono il successo dell’opera, principalmente con il regista e sceneggiatore Tom Stoppard: il suo valore sta proprio nell’aver portato il palcoscenico sul set, senza ledere nessuna delle due parti, ma al contrario, esaltandole nella mistione. Una curiosità sul suo conto: voci lo vogliono collaboratore di George Lucas nella pulizia di parte del testo di “Star Wars Episodio III: La vendetta dei Sith”, ma, ad oggi, queste voci non hanno trovato conferma. Lo accompagnano nel viaggio, Peter Biziou, alla fotografia, e Stanley Myers, giustamente riconosciuto dai più come il “padre della musica da film”: collabora in giovinezza con John Williams, un monumento, ed è responsabile della formazione di Hans Zimmer, anch’esso compositore di gran talento.
Nonostante le critiche con cui viene inizialmente accolta, la pellicola si aggiudica il Leone d’Oro come Miglior Film alla 47° Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica.

Capolavoro per l’amante del teatro, forse un po’ meno godibile per in cinefilo che, comunque, non ne può negare l’elevata qualità nella fattura stilistica così come nel tessuto.

VOTO 8/10

Marco Fiorillo
Pier Lorenzo Pisano


I Duellanti

Ciclo "Per non dimenticare": "Coppie in costume"

I Duellanti (1977)

Regia: Ridley Scott
Soggetto: Joseph Conrad
Sceneggiatura: Gerald Vaughan-Hughes


Keith Carradine: Armand D'Hubert
Harvey Keitel: Gabriel Feraud
Albert Finney: Joseph Fouché
Edward Fox: Colonnello
Cristina Raines: Adele de Valmassic
Robert Stephens: Generale
Treillard
Tom Conti: Dott. Joaquin
John McEnery: Cavaliere
Diana Quick: Laura
Alun Armstrong: Lacourbe
Maurice Colbourne: Tall Second
Gay Hamilton: Maid
Meg Wynn Owen: Léonie D'Hubert
Jenny Runagre: Madame de Lionne
Alan Webb: Cavaliere
Arthur Dignam: Capitano
William Morgan Sheppard: Maestro d'armi
Pete Postlethwaite: Barbiere
Liz Smith: Cartomante

Tratto dal racconto breve “The duel” di Joseph Conrad, la vicenda ha luogo durante tutto il protrarsi delle guerre napoleoniche ed i protagonisti sono due ussari, Armand d'Hubert (Keith Carradine) e Gabriel Féraud (Harvey Keitel).

Dopo uno stacco iniziale, dove si dichiara che la storia narrata è reale(ed in effetti il racconto di Conrad trae le basi da una storia vera), assistiamo ad una cruento duello. Armand delinea immediatamente tutte le sue caratteristiche: sguardo fiero, movenze feline, sicuro di sé, ruggisce e non perdona all’avversario nessun errore, incute timore, brama il sangue.

Quando la sua strada si incrocia con quella di Gabriel, per una serie di fraintendimenti e soprattutto per la tendenza attaccabrighe di Armand, i due si affrontano in un duello che non ha vincitori sul momento. Duello che si ripeterà ancora innumerevoli volte, diventando una sanguinosa ossessione.

Gabriel è una figura nettamente opposta  ad Armand: contrappone alla sua furia selvaggia mascherata da onore, un’ incrollabile esigenza di razionalità, ad esempio rappresentata  dall’inchiesta tanto agognata. Egli non può tirarsi indietro per via del sistema di valori collegati all’idea di “duello”, ed anzi gradualmente si costruirà una fama di valoroso proprio grazie a questo.

Gabriel non riesce a contenere la tenacia folle con cui Armand cerca il confronto. Da un lato, quindi, c’è la furia immotivata e la brama di morte di Armand che può soddisfarsi solo con la disfatta di uno dei due, dall’altro c’è il passivo subire di questo tornado incontrollabile di volontà e di violenza, di fronte al quale tutto, persino la guerra, sembra passare in secondo piano.

Tra le figure di contorno è interessante  quella di Adele: amante di Gabriel, perde la sua vita non in favore di un’ossessione ma alla ricerca di un amore che non troverà mai. Incontrerà Armand ed esaminerà con rigore psicologico la sua ingiustificata crudeltà. Lei è per Gabriel una figura protettrice, un porto sicuro e ha su di lui un’influenza benevola, quasi magica, come un angelo custode.

Il duello è l’elemento centrale del film, ciò che lo scandisce e che regala le inquadrature più feroci ed incalzanti. Inizialmente il duello è reso necessario come testimonianza di onore da parte di entrambi i duellanti, ma gradualmente si evolve, diventa una sorta di rituale, perché caratterizzato dal continuo ripetersi, ed esige il sacrificio del sangue ma anche di una continua tensione psicologica. È sempre imminente, imprevedibile, inesorabile. Annulla tutte le certezze: basta che gli occhi dei due si incrocino per determinare un nuovo scontro potenzialmente fatale, ed ha anche un’influenza determinante nel corso delle esistenze di entrambi: un’ossessione che consumerà le loro vite. Il duello manovra i due personaggi come due fantocci, mai pago del loro sangue.

Lo scontro anche quando non è più giustificato, continua a persistere perché è diventato in realtà l’elemento attorno cui ruota la vita dei due personaggi. Per i duellanti, sopra la carriera, il matrimonio, gli obiettivi che il resto degli uomini perseguono, c’è il Duello, e l’attanagliante angoscia della sua incompiutezza. Possiamo anche leggere nel comportamento di Armand e Gabriel una allegoria dei conflitti tra Napoleone ed i paesi con cui si è scontrato, e ciò è evidente soprattutto nel finale.

Le inquadrature che spaziano da giardini lussureggianti , scure caserme, vivaci bettole, ed eleganti case di campagna, la scelta delle musiche ed il soggetto in sé, ricordano fortemente “Barry Lyndon”, anche per l’accuratezza della ricostruzione storica, dai vestiti d’epoca alle tecniche di duello.

Il film fu a buon diritto premiato a Cannes nel 1977 come migliore opera prima di Ridley Scott, ed in effetti si fatica a credere che sia un’opera prima per la grandissima attenzione estetica, contrapposta alla carica selvaggia dei due personaggi.

È difficile attribuire un genere ben definito a quest’opera: oscilla tra il thriller psicologico, ma senza fare della tensione il suo punto di forza, ed il film storico in costume, ma affronta tematiche che seppur condizionate da idee di un determinato periodo storico (il duello), rispecchiano aspetti sempre presenti dell’animo umano.

Voto: 8/10

Pier Lorenzo Pisano
Marco Fiorillo