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sabato 2 aprile 2011

A beautiful mind

Ciclo "Per non dimenticare" Compleanni di celluloide: Ron Howard







A beautiful mind (2001)

Russel Crowe: John  Nash.
Jennifer Connelly: Alicia Lerde/Nash.
Ed Harris: William Parcher.
Paul Bettany: Charles Hermann.
Vivien Cardone: Marcee Hermann.
Adam Goldberg: Richard Sol.
Anthony Rapp: Bender.
Josh Lucas: Martin Hansen.
Christopher Plummer: Dott. Rosen.
Regia: Ron Howard.
Soggetto: Sylvia Nasar.
Sceneggiatura: Akiva Goldsman.
Produzione: Brian Grazer, Ron Howard.
Fotografia: Roger Deakins.
Scenografia: Leslie Rollins.
Musiche: James Horner.


Indagare la mente umana è sempre un’esperienza sconvolgente ed illuminante ad un tempo. Perdersi nei suoi recessi può cambiarci per sempre. Se poi la mente è quella di un genio della matematica come John Forbes Nash Jr., ritrovare la strada del ritorno può risultare impossibile. Perciò accomodiamoci e lasciamo che Ron Howard e co. ci guidino in questo affascinante e drammatico viaggio.



Il misterioso genio del West Virgina, John Nash (Russel Crowe) approda a Princeton nel 1947, grazie ad una borsa di studio. Carico di aspirazione e ambizione, comincia a lavorare all’”idea innovativa” che può valergli il successo agognato. Così facendo si allontana dal mondo che lo circonda, acuendo le sue già manifeste difficoltà ad interagire con le persone: ha solo due amici fedeli, il “prodigo compagno di stanza” Charles (Paul Bettany) e la matematica. La sua genialità si manifesta quando, con un’intuizione rapida e decisa, si rende conto di poter stravolgere anni di studi economici, modificando le incomplete teorie di Adam Smith: con una tesi di sole 27 pagine, si aprono davanti al giovane Nash le migliori opportunità di affermazione su quella  “torre d’avorio” che è il mondo matematico, oltre che rosei scenari lavorativi. La sua impareggiabile abilità nel codificare messaggi diviene oggetto di interesse anche da parte dell’esercito, che lo assolda, in piena Guerra Fredda, per collaborare ad alcuni progetti governativi. Intanto, compie la scoperta più importare della sua vita: l’amore. Sposa una giovane studentessa, Alicia Lerde (Jennifer Connelly), che rimarrà al suo fianco anche nei momenti più bui della sua vita.

Dopo il successo dei primi incarichi militari, viene avvicinato dall’”eminenza grigia”, William Parcher (Ed Harris), per sventare una missione segreta sovietica, votata allo sterminio in suolo statunitense. 

Il genio che tanto gli aveva dato, però, stava per rivoltarsi contro di lui, gettandolo in un’esistenza drammatica ed infernale. Riuscirà a sopravvivere solo grazie ad Alicia, amorevole e costante  presenza, e alla sua tenace volontà di risolutore di problemi. Ritornerà, così, al mondo accademico di Princeton, dove verrà raggiunto da un funzionario svedese che lo informerà della sua candidatura al Premio Nobel. I Nash avevano vinto.




Il film romanza la vita del matematico ed economista John Forbes Nash Jr., traendo spunto dalla meticolosa biografia redatta da Sylvia Nasar , trasposta da un entourage veramente unico, sia davanti che dietro le cineprese.

John Nash nasce il 13 giugno 1928 da una famiglia medio borghese, in una piccola città della Virginia occidentale. Gli anni della giovinezza non sono felici, causa proprio la sua tendenza all’isolamento e alla sua limitatissima socialità; si sente più a suo agio tra i libri, in particolare quelli di chimica, materia cui è avvicinato dal padre. Il geniale talento gli vale la rivincita durante la frequentazione del liceo, periodo nel quale si rende conto che la sua vera vocazione è la matematica: in particolare, si dimostra un elegante ed originale risolutore di problemi complessi. Dopo il bruciante insuccesso alla Putnam Mathematical  Competition, la strada verso il successo è in discesa: da Princeton, all’MTI fino al Wheeler. Conosce intellettuali del calibro di Einstein e Von Neumann, la sua “Teoria dei Giochi” diviene il fondamento internazionale delle trattazioni economiche. 

Tuttavia, la sua vita viene profondamente sconvolta dalla schizofrenia, di cui sarà affetto dagli anni di Princeton. La malattia lo terrà lontano dalla matematica, lontano dal mondo reale, per quasi trent’anni; ricoveri, medicinali distruttivi e invadenti terapie di elettroshock insulinico non porteranno alla guarigione: il Professore non potrà fare altro che imparare a convivere con il disturbo. Alternando acuti deliri a periodi di lucidità, Nash riuscirà a sopravvivere supportato dalla moglie, Alicia, cui dedicherà, nel 1994, il Premio Nobel per l’Economia.




Delicato come una poesia ma, allo stesso tempo, forte ed incisivo, “A beautiful mind” si pone in maniera del tutto nuova al problema delle malattie mentali. Il trend seguito per il film prevedeva, fin dall’inizio delle riprese, un’attenzione decisa all’impatto che un disturbo come la schizofrenia può avere sulla vita e sulla psiche di un uomo, come può cambiarlo, allontanandolo lentamente dalla realtà, gettandolo in un’esistenza disperata. “Vivere una realtà alternativa, senza però accorgersene fino ad un determinato momento”: in queste parole del produttore Grazer, si può ritrovare la vera essenza del film, interpretata in maniera superba dallo sceneggiatore Akiva Goldsman, che a sua volta: “John non ricorda molto di quando era devastato dalla malattia. Questo mi ha dato un’opportunità interessante. In questa vita esteriore così dettagliata, ho potuto costruire la vita interiore, offrendo al pubblico uno squarcio di cosa potesse significare soffrire di questa malattia”. Il regista, Ron Howard, ha le idee molto chiare rispetto alla trasposizione della malattia sullo schermo: lungi dal girare un’analisi clinica sulla situazione del paziente, confeziona un dramma umano, permettendo allo spettatore di interiorizzare le dinamiche del disturbo e di calarsi nei panni nel goffo professore. Quella che viene riprodotta sulla pellicola, è una storia di umanità e rispetto: non a caso, Howard e Grazer sono insigniti, nel 2002, del Premio per la Sensibilizzazione.

Protagonista del girato è, anche, l’intensa storia d’amore tra Nash e la studentessa Alicia Lerde. Si tratta di un affetto fiabesco che unisce i due protagonisti indissolubilmente, li tiene a galla quando tutto spinge alla loro separazione. Ma più della storia d’amore, viene esaltata la figura di Alicia, incrollabile  e fedele, che trova il coraggio di non abbandonare quell’uomo che già da tempo l’aveva, a suo modo, abbandonata. Nonostante la disperazione, il senso di ineluttabilità, trova la forza di credere che “qualcosa di straordinario sia possibile”.  La donna, interpretata da una Jennifer Connelly matura ed intensa, ricalca quasi perfettamente la “vera” Alicia Nash. È giusto dire, in quest’occasione, dietro un grande uomo, c’è sempre una grande donna.

Da parte sua, il Professor Nash, nonostante gli effetti del disturbo, non perderà mai quell’orgoglio, quella tenacia d’animo che da sempre lo hanno contraddistinto. Combatte la malattia come se fosse un altro problema da risolvere, vuole arrivare alla soluzione solo con le proprio forze, come ha sempre fatto. Si ritira per lungo tempo a vita privata, vergognandosi di mostrarsi al mondo dopo quello che gli è accaduto: sarà quello stesso mondo a riaccoglierlo a braccia aperte, riconoscendo in lui un genio brillante ed un grande uomo.




Howard capisce di aver realizzato un vero capolavoro, alla prima visione della pellicola in compagnia dei coniugi Nash. John, leggermente annoiato per la prima metà della pellicola, alla scena dell’ elettroshock insulinico, girandosi in lacrime verso il regista, gli porge i suoi ringraziamenti, ammettendo di non aver mai ricordato quel momento della sua vita. 

Nonostante la volontà dell’entourage tutto di trattare in maniera interiore il momento della malattia, comunque ne hanno dovuto stabilire i sintomi da riportare sullo schermo. La scelta è caduta su alcune allucinazioni; dobbiamo, però, ricordare che i deliri più ricorrenti di Nash riguardano criptici messaggi inviategli dagli extraterrestri, la convinzione di essere il Governatore dell’Antartide, il piede sinistro di Dio e, infine, il Capo di una sorta di governo universale. La trasposizione meno pesante delle manifestazione del disturbo, testimoniano una scelta registica eccellente e riuscita, che permette realmente di capire gli effetti devastanti della schizofrenia, riuscendo anche di sensibilizzare il pubblico, oltre che di emozionarlo fin quasi alle lacrime.

Una curiosità, infine: un ruolo molto importante, nella realizzazione della pellicola, l’hanno Greg Cannom e Kevin Mack. Il primo, artista del trucco (già collaboratore di Howard per “Cocoon”), approfittando anche della costante presenza del “vero” Nash sui set, trasforma Crowe nel Professore, con ben nove fasi di trucco e abilissime tecniche di invecchiamento. Il secondo, tecnico degli effetti speciali, ultima la pellicola anche dal punto di vista grafico, nonostante pare che non siano presenti interventi digitali; in particolare, provengono da Mack, le idee che hanno permesso la realizzazione grafica dell’universo costituito dalla mente di Nash, interpretandone sullo schermo le intuizioni e i complicatissimi ragionamenti matematici. 




Contraddistinto da uno straordinario talento di caratterista, Russel Crowe, magnifico nella pellicola, da prova di una dimensione interiore e di un approccio al personaggio spettacolari; dalla recitazione piena e mai banale, indossa perfettamente i panni del Professor Nash, interpretando il brillante genio e il disturbato schizofrenico con medesima maestria. Purtroppo, la prestazione non gli vale l’Oscar, pronosticato dai più, che finisce però a Denzel Washington per “Training Day”. Intensa e sicura, Jennifer Connelly si cimenta in una prova difficile, superata a pieni voti: collima la grande umanità ad una grande alchimia con Crowe, ottenendo un giustissimo riconoscimento, l’Oscar a miglior attrice non protagonista. La coppia fa distogliere lo sguardo dal resto del cast, assolutamente all’altezza. Il duo Paul Bettany (unitosi in matrimonio alcuni anni dopo la pellicola proprio alla Connelly) Ed Harris, forniscono un ottimo apporto al Nash di Crowe; dopo la pellicola verrà notata anche la giovanissima Vivien Cardone, arrivata successivamente al successo, recitando nella serie “Everwood”, ottenendo la nomina, per quattro anni di seguito, a Miglior Giovane Attrice in una serie tv al “Young Artist Awards”; Christopher Plummer e Josh Lucas completano un cast davvero superlativo. 

La realizzazione della pellicola è diretta da un Ron Howard in grandissima forma (che si regala anche l’ultimo cameo della carriera), supportato da colleghi d’eccezione. Brian Grazer, produttore atipico, partecipa al processo creativo in maniera attiva, stabilendo un perfetto sodalizio con Howard: non arriva inaspettato l’Oscar a Miglior Film, che porta la firma di un’amicizia oltre che di una collaborazione lavorativa. L’Oscar arriva anche per Akiva Goldsman e la sua sceneggiatura non originale; da subito affascinato dal progetto, si propone con decisione ad Howard che non può far altro che affidargli la “parte”: la profondità conferita alla narrazione, il modo di rapportarsi alla malattia, le scelte stilistiche, stabiliscono la riuscita della scelta del regista. Un cenno va, anche, a Karen Kehela, co-presidente della Imagine Pictures, spalla perfetta di Akiva; sarà proprio lei, tra le altre cose, a costruire, con una brillante intuizione, la scena in cui Nash si rende della “verità” su Marcee. La pellicola è, infine, accompagnata da una colonna sonora meravigliosa, firmata James Horner; avvicinato al progetto da Howard, ne rimane subito entusiasta: il risultato è un accompagnamento musicale che da una forza ed un impatto ancora maggiore al girato.

Un capolavoro che rimane nella memoria, indelebile, ed è capace di emozionare come pochi.



VOTO 8/10





                                                                                                                                                 
Marco Fiorillo
Pier Lorenzo Pisano     




venerdì 1 aprile 2011

Le Iene

Ciclo "Per non dimenticare" Compleanni di celluloide: Quentin Tarantino


                                                                   




  Le Iene(1992)

 Harvey Keitel: Mr. White
Tim Roth: Mr. Orange
Steve Buscemi: Mr. Pink
Michael Madsen: Mr. Blonde
Chris Penn: Eddie "il bello" Cabot
Lawrence Tierney: Joe Cabot
Quentin Tarantino: Mr. Brown
Edward Bunker: Mr. Blue

Kirk Baltz: Marvin Nash




Primo lungometraggio di Tarantino, “Reservoir Dogs” fu presentato per la prima volta al Sundance Film Festival e poi in Giappone allo Yubari International Fantastic Film Festival, segnando il luminoso inizio della carriera del cinefilo regista.
Bisogna ricordare che il progetto, in partenza interamente indipendente, fu poi sostenuto da Harvey Keitel che divenne anche co-produttore; il grande successo della pellicola(anche a posteriori, dopo il successo di “Pulp Fiction”) lanciò Steve Buscemi ed indirettamente Samuel L. Jackson, che Tarantino conobbe durante il casting per la parte di Mr. Orange e volle per “Pulp Fiction”.

Il film presenta in se già molte tematiche che ritorneranno sempre in Tarantino: la violenza (qui ancora realistica e non ridicola), la formidabile sceneggiatura dai dialoghi ironici e sferzanti, un esasperato citazionismo e in particolare un grosso debito col cinema orientale(dal quale attinge pesantemente, basti pensare a “City on Fire”).

La vicenda tratta essenzialmente di una rapina andata male, per colpa di un infiltrato: ma l’attenzione è posta sui dialoghi e le differenti psicologie dei personaggi; la scena della rapina non verrà mai rappresentata sullo schermo, mentre attraverso vari flashback conosceremo gradualmente i retroscena, la preparazione del colpo, e dettagli sui rapinatori.
La sequenza iniziale sintetizza alla perfezione l’essenza stessa del film: un gruppo di persone in un caffè, discutono di musica e di altri argomenti generici. Questa scena è completamente slegata dal resto del film ed ha due funzioni: ci mostra i personaggi rilassati, a loro agio, scherzosi, e crea nello spettatore empatia per loro (che sarebbe stato difficile creare mostrandoli come assassini spietati); in secondo luogo lancia alcuni indizi su ognuno attraverso i loro discorsi: i personaggi sono i loro dialoghi.
Mr. White(Harvey Keitel) è “anziano” rispetto agli altri e accomodante, ma sa farsi rispettare. Mr. Pink(Steve Buscemi) col suo discorso sulle mance appare anticonformista, cinico, materialista e calcolatore. Mr. Blonde(Michael Madsen) è taciturno, e la battuta più significativa che dice è:“vuoi che spari a questo stronzo?”, che pur se detta in un contesto scherzoso esprime la sua violenza.  Eddie "il bello" Cabot(Chris Penn) sembra amichevole, ma si distingue dagli altri: è lui che raccoglie le mance, si trova evidentemente in una situazione di superiorità, ed infatti è il figlio del boss. Joe Cabot(Lawrence Tierney) è il capo indiscusso, piu anziano di Mr. White,  paga per gli altri e ignora le resistenze di Mr. Pink nel lasciare una mancia. Mr. Orange(Tim Roth) parla solo quando Joe gli chiederà chi non ha messo la mancia: fa la spia, ed infatti sarà lui a tradire.

È importante sottolineare come nulla faccia presagire che questi uomini siano dei criminali. Assistiamo solo ad una scena tranquilla in un bar.

Subito dopo questa lunga sequenza, il ritmo del film cambia drasticamente e davanti a noi, sui sedili posteriori di una macchina, c’è un uomo urlante in un lago di sangue, un irriconoscibile Mr. Orange(se confrontato alla persona vista nel bar) con Mr. White alla guida. Lo spettatore è catapultato nell’azione, senza nessuna idea su cosa stia succedendo, (sebbene inizialmente la sceneggiatura di Tarantino dopo la scena del bar prevedesse una didascalia “uno di questi uomini è un poliziotto. E prima della fine, saranno tutti morti tranne uno”).
A parte alcuni interni e pochissimi esterni, tutto il film si svolge nell’hangar, punto di ritrovo a rapina ultimata; come in un dramma teatrale tutta l’azione e la tensione passa attraverso il parlato, mentre la violenza oltre che verbale è anche fisica: celebre la scena della tortura del poliziotto da parte di Mr. Blonde a ritmo di "Stuck in the Middle With You".

Una grande prima prova, cinica e violenta. Il piccolo hangar che ospita i rapinatori è un microcosmo, presentato come metafora del mondo fuori controllo in cui viviamo, dove la follia può presentarsi in ogni momento, nessuno è davvero in grado di conoscere gli altri, non ci si può fidare di nessuno ed anzi la fiducia paga pegno. Non c’è nulla di pianificabile, l’imprevisto è all’ordine del giorno e tutti attendono impotenti il proprio destino.

VOTO 7/10



Pier Lorenzo Pisano

Marco Fiorillo


                                                                                                                                                 
                                                    

mercoledì 30 marzo 2011

Speciale Cineteca:Lee Changdong

Lee Changdong


Lee Changdong è un regista sud-coreano; ex-insegnante di liceo e romanziere, nel 1993 scrive la sua prima sceneggiatura(“To the Starry Island”), e risale al 1997 il suo primo lungometraggio come regista(“Green Fish”).
Acclamato in occidente, partecipa al Pusan International Film Festival ("Peppermint Candy", 1999), nominato al leone d'oro a Venezia e premio speciale della giuria("Oasis", 2002) e vincitore al festival di Cannes("Secret sunshine", 2007) per la migliore interpretazione femminile, presente inoltre a svariati festival asiatici e indipendenti.

La sua visione del cinema è molto influenzata dal neorealismo italiano e da alcuni aspetti del cinema coreano (precedente la dittatura degli anni settanta), accomunati dall'idea della riproduzione della realtà cosi com'è e dell'idea di cinema non come luogo di rifugio ma anzi come luogo catartico in cui (citando Changdong stesso)"ciascuna interiorità può incontrarsi con la realtà". Il suo è un cinema della "realtà e fantasia", una sintesi che sembra essere vincente a giudicare dai risultati ottenuti: la sua ultima fatica "Poetry", in uscita nelle sale italiane l’1 aprile, ha vinto all’Asian Film Awards di Hong Kong (gli Oscar orientali) il premio per la Miglior Regia e il premio per la Miglior Sceneggiatura, sceneggiatura risultata vincitrice anche a Cannes. Regista capace di creare atmosfere cariche di deprimente realtà e personaggi che si imprimono nella memoria dello spettatore, nelle sue pellicole ritroviamo affrontate spesso tematiche sociali e di denuncia,(ricordiamo che è anche stato ministro della cultura); egli sostiene che nella attuale società multimediale ormai i giovani non pensino piu per parole scritte, ma per immagini, e che sia importante domandarsi, soprattutto se ci si trova nella posizione di produrre cultura per immagini, "Che tipo di immagini stiamo producendo?". Come ministro si è battuto nella convinzione che economia e cultura vadano di pari passo, e che sia sbagliato tagliare i fondi alla cultura per favorire l'economia perchè anche la cultura arricchisce, sia il paese che le singole persone.
Nonostante la vitalità e poliedricità del cinema recente sudcoreano anche per esso si inizia a parlare di crisi, ma per Changdong la soluzione è nella creatività, elemento fondamentale in presenza della quale nessuna crisi può esistere.


Peppermint Candy(1999)

Scritto e diretto da: Lee Changdong
Con:
Sol Kyung-gu
Moon So-ri
Kim Yeo-jin







 Il secondo lungometraggio di Lee Changdong ha inizio con una scena molto forte: la fine della vita di un uomo, Yong-ho. Un uomo disperato che si lascia andare completamente al dolore, un corpo donato all'angoscia e alla disperazione come in un quadro di Munch. Urla inconsulte, sbracciamenti e morte, che arriva inesorabile sotto forma di treno, in contrasto con la pace del fiume che scorre sotto le rotaie sopraelevate e a dispetto della superficialità delle persone che cantano e si svagano li vicino.

 L'acqua, il treno, la morte: questi sono i tre elementi cardine del film che si ripresenteranno sempre. Ogni scena rilevante è sottolineata dall elemento dell'acqua, sottoforma di fiume, mare, pioggia torrenziale, doccia lasciata aperta, perchè l'acqua scorre sempre, cosi come un treno, ed è inesorabile come la morte del protagonista. La vita procede su binari già tracciati ed anche se sembrano esserci biforcazioni, la scelta è un'illusione. Il punto d'arrivo non può cambiare. L'unica cosa che si può fare è procedere a ritroso e ricostruire i tasselli del mosaico della vita di quest'uomo, che uniti insieme lo hanno portato al suicidio. Il film è diviso in sezioni, separate dalle riprese di un treno che procede all'inverso, simbolo della vita, in una composizione ad anello. Lentamente tutti i pezzi si incastrano procedendo a ritroso di vent'anni nella vita di Yong-ho fino a restituirci un quadro sempre piu completo ed una comprensione sempre maggiore di quello che appare come un atto assurdo quale il suicidio. Contemporaneamente Lee Changdong ripercorre attraverso la vita di Yong-ho le tappe della storia recente coreana, criticandole aspramente, e che avranno anche un'effetto concreto sulla vita del personaggio, rendendolo sempre piu cinico e crudele. Il poetico ritratto della vita di un uomo, mostrata con tutte le indecisioni, le scelte sbagliate, le illusioni, i dolori, gli amori, i rimpianti. Il treno si fermerà solo quando ritornerà al punto di partenza: il fiume. Un ragazzo che voleva fare il fotografo guarda con sguardo ingenuo e colmo di speranze il futuro teatro della sua morte.
 Il film è ricco di inquadrature dalla grande carica espressiva, ed offre spaccati della realtà della Corea del sud di una crudezza disarmante. Riesce sempre a creare una sensazione di attesa nello spettatore, disseminando piccoli indizi, oggetti significativi, in ogni sezione della vita di Yong-ho, che richiama le sezioni precedenti o successive, in un ben congegnato sistema ad incastro.

L'uomo si identifica nella Storia, e non riesce a reggerne il peso: questo è il vero motivo del suicidio. Lee Changdong rappresenta sullo schermo le contraddizioni ed il dolore di un paese che ha massacrato i suoi studenti negli anni ottanta, e che guardandosi alle spalle, personificato in Yong-ho, non riesce a reggere il peso della colpa.
Un film di denuncia intriso di introspezione e drammaticità.

Pier Lorenzo Pisano

Marco Fiorillo

voto 7/10

Sucker Punch


Sucker Punch (2011)
Emily Browning: Baby Doll.
Vanessa Hudgens: Blondie.
Jamie Chung: Amber.
Jena Malone: Rocket.
Abbie Cornish: Sweet Pea.
Carla Gugino: Miss. Gorski.
Jon Hamm: High Roller.
Scott Glenn: The Wiseman.
Oscar Isaac: Blue.
Gerard Plunkett: The Stepfather/ Padre O’Rourke.
Regia: Zack Snyder.
Soggetto: Zack Snyder.
Sceneggiatura: Zack Snyder, Steve Shibuya.
Fotografia: Larry Fong.
Montaggio: William Hoy.
Musiche: Tyler Bates, Marius De Vries.
Costumi: Michael Wilkinson.

Donne, sangue e rock’n roll: ecco la formula del successo della nuova pellicola di Zack Sneyder, che, per questo suo quinto film, unisce i concetti grafici cui ci ha abituato, ad un cast dalla spiccata sensualità e a un intricato intreccio psicologico, che lascia lo spettatore spaesato, quasi sperduto in questo “strano mondo”.
Alla morte della madre, la giovanissima Baby Doll (Emily Browning) deve tener testa ad un patrigno (Gerard Plunkett) malvagio e dalle strane perversioni, desideroso di appropriarsi dell’eredità che la donna ha lasciato alle due figlie, Baby Doll e sorella, appunto. Quando l’uomo attenta alla vita della minore delle figlie, cercando probabilmente anche di approfittare di lei, Baby Doll è costretta ad intervenire ma nella tensione del momento, uccide la sorella. Il patrigno scorge allora la possibilità di liberarsi anche della maggiore: conduce la figliastra presso un centro di igiene mentale per sottoporla, previo un losco pagamento, alla lobotomia. Prima del giorno fatale, la ragazza ha però cinque giorni di tempo. Durante questo breve periodo, Baby Doll conosce le altre pazienti dell’ospedale e trasporta se stessa e le altre in una schizofrenica realtà parallela, la cui origine rimane incerta. Il manicomio diventa, così, un bordello degli anni ’50, e le giovani donne delle sensualissime ballerine di alto borgo, invischiate in un mondo squallido di strofinamenti e sudori. Come in una matriosca, i confini della realtà del bordello diventano labili, per lasciare spazio ad un ulteriore piano d’azione, in cui le ragazze intraprenderanno un viaggio per la libertà, tra i più disparati scenari bellici. Condotte alla meta da un’insolita guida (Scott Glenn), le cinque ragazze, Rocket (Jena Malone), Sweet Pea (Abbie Cornish), Blondie (Vanessa Hudgens), Amber (Jamie Chung) capitanate da Baby, affronteranno terribili scontri e prove mozzafiato, solo per ritornare al punto di partenza, quella realtà da cui tanto si erano alienate.
Opera prima del maestro del genere Sneyder, lo “steampunk drama” è il primo soggetto del regista a non essere tratto da opere preesistenti. Tuttavia, sono quantomeno palesi contaminazioni grafiche così come concettuali. La pellicola unisce le caratteristiche d’immagine dei classici manga giapponesi (di chiara ispirazione, in tal senso, è l’aspetto di Baby Doll e compagne), alla ripartizione in “livelli” propria dei videogames: la scena sembra comporsi, infatti, di missioni, con un proprio “nemico specifico” ed un “premio finale”. L’azione, poi, pare prendere spunto, in modo anche abbastanza spudorato, da capolavori come l’onnipresente “Matrix” e “Kill Bill”, così come da cult fantasy come “Il Signore Degli Anelli”.
Per quanto riguarda le vicinanze concettuali, Sneyder prosegue il filone che mette al centro dell’attenzione il “sesso debole”; impossibile non cogliere l’ispirazione tratta da “Ragazze interrotte”, con Angelina Jolie e Winona Ryder: nella pellicola di James Mangold, al centro della scena è un gruppo di giovani donne rinchiuse in un manicomio, che, tra “immaginifici ripieghi mentali” e scherzi di vario genere, tenteranno la fuga dalla reclusione dell’ospedale. Ciò che unisce in modo particolare i due film, è la percezione “amplificata” della realtà, che fa da sfondo ad entrambe le vicende.
Sneyder, inoltre, cavalca la recente fortuna che il dramma psicologico sta vivendo, interpretando, anche se in modo opaco, l’attrazione che stabilisce sul pubblico.
Tirando le somme, il risultato è una chimera fatta delle maggiori tendenze degli ultimi dieci anni di cinema.
Nonostante la natura articolata del film, è possibile stabilire la presenza di due messaggi abbastanza chiari. Da una parte, la volontà di portare alla ribalta quel sesso debole, che di debole dimostra ben poco nella pellicola. Dopo il lavoro tutto al maschile di “300”, Sneyder si affida al Girl Power di Baby e delle altre ragazze, che dimostrano come l’action movie possa funzionare anche senza ondeggianti pettorali e ispide barbe. È pur vero che le ragazze non hanno avuto trattamenti di favore: prima dell’inizio delle riprese, il cast è stato sottoposto a dodici settimane, cinque giorni la settimana,di duro allenamento comprendente preparazione fisica, arti marziali, coreografie di combattimento e utilizzo delle spade; gli allenamenti sono stati diretti dalla “87eleven”, da trainers come Damon Caro e Logan Hood, che già avevano sottoposto ad estenuanti work-out Gerard Butler e gli altri “spartani”. La stessa Jamie Chung, all’arrivo alle palestre di Los Angeles, preoccupata afferma:”Oddio, ma dove mi sto cacciando?”
In secondo luogo, un’esigenza ineluttabile di libertà muove tutto il girato, partendo dalla sceneggiatura dell’avventura delle ragazze, alla “costruzione” delle ambientazioni tetre e lugubri del manicomio, prima, opprimenti e squallide del bordello, poi. Per raggiungere l’agognata libertà, le giovani protagoniste sono pronte a combattere contro giganteschi samurai, draghi sputa fuoco, hitleriani zombie che in verità esistono solo nella loro menti: sembra che la vera libertà non sia uno stato di fatto ma una condizione dello spirito che può raggiungersi anche tra gli antidepressivi di un manicomio o le danze burlesque di una casa chiusa.
Pezzo forte dell’opera, le scene d’azione dimostrano (se ce n’era ancora bisogno) la genialità e tutto lo stile di Snyder, ai cui concetti grafici siamo stati abituati dai suoi lavori precedenti, in particolare “300” e “Watchmen”. In quest’esperienza, il regista trova il supporto del co- sceneggiatore Steve Shibuya, la cui influenza è palpabile nella caratterizzazione dei combattimenti, spettacolari nella forma, assai particolari per protagonisti ed ambientazione. La firma dello statunitense marchia un progetto la cui “paternità” è assolutamente deducibile; tuttavia, in quest’occasione i duelli diventano un po’ troppo noioso e ripetitivi, a tratti anche confusionari. Inoltre, mentre nel racconto spartano e nella riproposizione del fumetto di Moore e Gibbons l’azione non toglie il posto a contenuti e dialoghi, “Sucker Punch” risulta più povero, sotto questo punto di visto: la narrazione, seppur originale e interessante, non riesce a ritagliarsi lo spazio che meriterebbe, oppressa da mitragliatori e sensuali danze (almeno nella versione originale: molte scene sono state infatti tagliate durante il montaggio finale, come vedremo tra poco). La diversa profondità è rintracciabile nella voce che accompagna prologo e epilogo, quasi distaccata dal resto del girato, assolutamente lontana dallo spessore delle parole messe in bocca all’orbo Delios (David Wenham), uno dei trecento “uomini liberi” di Leonida.
Per Sneyder, la vita è un grande spettacolo teatrale: le protagoniste abbandonano la proprio identità per salire sul palcoscenico e diventare sexy lolite piuttosto che sanguinarie combattenti. L’analogia, sapientemente rappresentata dal prologo, fa delle giovani donne delle eroine senza volto, capaci di saltare da un piano all’altro della “realtà”, pur di raggiungere il proprio scopo, abbandonare la vita al bordello, abbandonare il manicomio.
Confusionario nell’esplicazione della narrato, Snyder centra in pieno il suo obiettivo: “La cosa più folle che abbia mai scritto” così descrive il film il regista, che continua:”Un “Alice nel Paese delle Meraviglie” con le mitragliatrici”.
Nonostante gli 82 milioni destinati alla realizzazione della pellicola, sembra che gli incassi non siano quelli sperati dalla Warner Bros, che pure non si aspettava guadagni da record: l’impietoso botteghino americano colloca “Sucker Punch” al secondo posto, alla prima settimana di visione, con un incasso di 19 milioni, nettamente superato dalla commedie per ragazzi “Diary of a Wimpy Kid: Rodrick Rules”, a quota 24 milioni. L’abisso qualitativo tra i due non colma le tasche dei contribuenti, che si preparano al terzo flop economico del regista, dopo “Watchmen” e “Il Regno di Ga’Hoole”. E pensare che Snyder aveva preso in considerazione l’idea di riversare il film in versione 3D: a riprese cominciate, la possibilità era stata tenuta in conto da regista e casa di produzione, tuttavia dopo aver visionato la riproposizione in 3D realizzata da varie aziende, Snyder, poco convinto dal risultato, ha preferito mantenere il film nella versione originale, come annunciato da lui stesso al Comic-Con del 2010.
A produzione terminata il film ha subito pesanti tagli nel montaggio, causa censura, che hanno determinato l’eliminazione di 18 minuti di pellicola, tra ulteriori scene d’azione e alcune danze seducenti. Nel girato omesso, anche le canzoni “Love is the drug” di Roxy Music (che vede in duetto Carla Gugino e Oscar Isaac) e “White Rabbit” di Jefferson Airplane, che costituiscono le due tracce incluse nella colonna sonora cantate direttamente dal cast. Ricordiamo, infatti, che al di là degli estenuanti allenamenti fisici, la preparazione al film ha compreso anche lezioni di canto e di danza.
Uno dei pochi cenni positivi va, sicuramente, alla colonna sonora che “Nella storia, è la cosa che ti lancia all’interno di questi mondi fantastici”, come ammette lo stesso Sneyder. Effettivamente, la scelta della musica appare assolutamente azzeccata e funzionale al processo di immersione dello spettatore nelle atmosfere del film. Per la realizzazione della stessa, Tyler Bates e Marius De Vries, si sono serviti di tracce audio preesistenti, arrangiandole; a queste si sono aggiunte alcune interessanti partecipazioni del cast.
Una particolare curiosità, infine: la scena in cui tre delle protagoniste, Rocket, Sweet Pea e Baby Doll, si lanciano dall’alto per atterrare su di un castello in cui infuria una battaglia tra orchi e uomini, ricorda moltissimo una tavola realizzata da Alex Ross per “Marvels, l’Era degli Eroi” in cui un manipolo di supereroi si lancia all’attacco di una medievale fortezza nazista. Sembra proprio che Sneyder, non riesca a stare lontano dal mondo del fumetto, dopo la trasposizione cinematografica delle opere di Frank Miller e di Moore e Gibbons.
Purtroppo le crepe che presenta la pellicola non vengono colmate da un cast che non sembra all’altezza. Emily Browning, scelta secondaria di Sneyder che inizialmente si era rivolto a Amanda Seyfried (“grande” a dette del regista!) costretta però a declinare l’offerta causa impegni presi in precedenza, risulta monocorde, esile; si esalta solo nel prologo che, comunque, risulta il momento più riuscito del girato. Il resto del cast femminile proviene da ruoli di relativamente poca importanza: Vanessa Hudgens, reduce dal successo di “High School Musical”, non sembra adatta per il ruolo; Abbie Cornish, la “nuova Nicole Kidman”, vanta comparsate di successo; lo stesso vale per Jamie Chung; discorso a parte per Jena Malone, sia per vissuto che per la parte in “Sucker Punch”. Impalpabile il cattivo di turno interpretato da Oscar Isaac. Spiccano, invece, Carla Gugino, che pure aveva lavorato con Sneyder in “Watchmen”, e Scott Glenn, la cui figura di guida, saggia e fatta di frasi fatte, è forse troppo stereotipata in questo caso.
La grande famiglia Sneyder si riunisce ancora una volta per l’occasione. Al regista si uniscono la moglie Deborah e l’amico Wesley Coller: i tre hanno fondato nel 2004 la casa di produzione Cruel and Unusual Films, il cui logo è attualmente costituito da un’immagine proprio di Baby Doll; ad oggi, l’azienda si è occupata della produzione dei tre precedenti del regista, tranne che di “Il Regno di Ga’Hoole”. Si aggiungono, Larry Fong, responsabile della fotografia, che aveva collaborato con Sneyder già in “Watchmen” e “300”, lasciando sempre una chiarissima impronta sul girato, così come accade per “Sucker Punch”, e Tyler Bates, compositore della colonna sonora de “L’alba dei morti viventi” e “300”; a tal proposito, ricordiamo che la realizzazione delle musiche di quest’ultimo film è stata accompagnata da forti critiche per la somiglianza con le tracce di “Titus”(1999), le cui musiche sono state composte da Elliot Goldenthal.
Nel tentativo di replicare il successo delle opere precedenti, Sneyder dedica quasi dieci anni alla preparazione di questa sua quinta pellicola. Il tentativo di riempire fino all’orlo il contenitore, però, non giova al risultato, un film saturo per quel che riguarda i contenuti e pesante sul versante action. Una coraggiosissima scommessa per Sneyder, che non permette via di mezzo: è un film che verrà accolto a braccia aperte dai fan del genere e del regista ma che farà storcere il naso al resto del pubblico. Ai posteri, l’ardua sentenza.
VOTO 6/10

Marco Fiorillo
Pier Lorenzo Pisano

domenica 27 marzo 2011

Il silenzio degli innocenti

Ciclo "Per non dimenticare" Allievo e Maestro


Il silenzio degli innocenti (1991)

Anthony Hopkins: Hannibal Lecter.
Jodie Foster: Clarice Starling.
Scott Glenn: Jack Crawford.
Anthony Heald: Dr. Frederick Chilton.
Ted Levine: Jame Gumb.
                                                                                                                                              Charles Napier: Tenente Boyle.
                                                                                    Frankie Faison: Barney Matthews.
                                                                                    Kasi Lemmons: Ardelia Mapp.
                                                                                   Brooke Smith: Catherine Martin.

                                                                                    Regia: Jonhatan Demme.
                                                                                    Soggetto: Thomas Harris.
                                                                                    Sceneggiatura: Ted Tally.
                                                                                    Musiche: Howard Shore.
                                                                                    Scenografie: Kristi Zea.
                                                                                     Fotografia: Tak Fujimoto.


Il cattivo vive solo del mondo che ritrova nelle stanze del Palazzo della Memoria. Una prigione di vetro e fredda pietra lo cingono in un abbraccio eterno. Quand’ecco che l’eroe, in questo caso l’eroina lo riporta nel mondo reale: ha bisogno di sondare il male che vive nel cuore del cattivo per poterne catturare un altro. In questo modo, i due condivideranno molto più di un’indagine, scoprendo che il confine tra bene e male non è poi così sottile.


Assennata e brillante, la studentessa Clarice Starling (Jodie Foster) si è già distinta durante la preparazione presso la sede d’addestramento delle reclute dell’FBI di Quantico. Quel che le serve è un’occasione per entrare nel “vivo dell’azione”, un’occasione che non tarda ad arrivare. Il killer seriale Buffalo Bill sta mettendo a dura prova le autorità federali poste al comando di Jack Crawford (Scott Glenn), che vede nella recluta Starling la possibilità di far luce sul caso: ancora prima di ricevere il distintivo, la invia nelle segrete del Chasepeak General Hospital a cercare l’aiuto dell’ex psichiatra e criminologo Hannibal Lecter, ormai ospite della prigione da otto anni, dopo gli efferati delitti di assassinio e cannibalismo di cui si è macchiato.
Nonostante la giovane età e l’inesperienza pratica, Starling tiene testa al genio che si trova di fronte, riuscendo anche ad ingannarlo: quando la figlia della senatrice Martin, Catherine, viene rapita da Bill, offre al Dottor Lecter una migliore “sistemazione”, accordo poi rivelatosi fasullo (e smascherato dal direttore del manicomio, Chilton, “nemesi” del cannibale), in cambio dell’identità dell’assassino, che pare lo psichiatra abbia conosciuto indirettamente anni addietro. I due sigleranno, dunque, un nuovo celato accordo: i segreti, i ricordi della giovane recluta, in cambio dell’aiuto, dei consigli del vissuto Dottore.


La storia è tratta dall’omonimo romanzo edito nel 1988 e  firmato Thomas Harris, autore della saga dedicata alla “avventure” di Hannibal Lecter. In particolare, “Il silenzio degli innocenti” è il secondo libro dello scrittore statunitense in cui compare la figura del’antropofago dottore: è preceduto da “Il delitto della terza luna”(1981), nel quale l’agente Will Graham, dopo aver provveduto alla cattura di Lecter, si occupa di un altro psicotico assassino seriale che si fa chiamare “Il Drago rosso”, e seguito da “Hannibal” (1999), che tratta le vicende seguenti alla fuga del Dottore durante le indagini per l’arresto di Buffalo Bill, e da “Hannibal Lecter: le origini del male” (2006), in cui Harris ripercorre le vicende che hanno fatto del giovane lituano un mostro senza passato. Di tutti i romanzi sono state realizzate delle trasposizioni cinematografiche, mai fedelissime, cui va aggiunta una prima versione de “Il delitto della terza luna”, quale “Manhunter- frammenti di un omicidio” (1986), in cui i panni di Hannibal Lecter sono indossati da un poco convincente Brian Cox. Delle varie pellicole, la più riuscita tra pubblico e cronaca è sicuramente la protagonista della nostra recensione.
Va, inoltre ricordato, che la figura di Buffalo Bill trae ispirazione dal tristemente famoso omicida Ed Gain, proprietario della “casa degli orrori” che, in un modo o in un altro, ripercorre le tappe del thriller criminologico moderno. Gain vive durante la prima metà del ‘900, figlio di un padre alcolizzato e di una madre luterana, una fanatica religiosa, che tiene in isolamento dal mondo i due figli, il maggiore Henry e lo stesso Ed. Col tempo, Henry comincia a ribellarsi ai precetti della madre, cercando di portare dalla sua parte anche il fratello; tuttavia, durante un incendio scoppiato nella fattoria Gain (1944), Henry muore in condizioni misteriose. Dopo la morte del padre (1940), Ed rimane da solo con la madre che , però, lo abbandona un anno dopo l’incendio. Rimasto solo al mondo, Ed da libero sfogo al mostro addormentato dentro di se: durante le indagini per la sparizione della commessa Bernice Worden, le autorità rinvengono la sopracitata casa degli orrori, in cui Gain conserva, tra altri macabri manufatti, un gilet chiamato “veste mammaria” fatto di una vagina e delle mammelle cucite insieme ed un intero guardaroba fatto di pelle umana. Come vedremo tra poco, i riferimenti al seriale Bill sono effettivamente molto espliciti; tuttavia, si denota un certo grado di contaminazione anche nella realizzazione cinematografica di Hannibal Lecter, come per il sorriso beffardo che accomuna i due e che portano come una maschera rivolto al mondo che li circonda.


Il film sembrerebbe basarsi su di un canovaccio classico: l’eroe, da una parte, il cattivo, dall’altra, il tentativo di fermare i suoi oscuri propositi. Nel mezzo, l’ambigua figura dell’anti-eroe, diviso tra le due fazioni. È proprio questa presenza a stabilire la brillantezza del girato così come del romanzo, in precedenza. L’attenzione è tutta diretta su Hannibal Lecter, cucito alla perfezione dal regista Demme per calzare ad uno spettacolare Hopkins, che riesce ad immortalare uno dei villain più famosi e chiacchierati della storia. Riesce a rapire la scena Lecter, geniale e orripilante, saggio e spietato a un tempo. Estremamente cortese, è una persona dagli innumerevoli interessi e dalla mente brillante, capace come nessuno altro di sondare la psiche umana; non riesce però a dirigere questa “potente intuizione” verso se stesso, al contrario si fa gioco di quanti tentino di capire il perché della sua persistenza nelle ombre. Dall’altra parte la recluta Starling che, fresca di studi, dovrà abbandonare ogni schema convenzionale nel trattare col Dottore, scoprendo, come lei stessa ammetterà, di poter solo imparare dallo psichiatra. Anche Clarice, però, è sotto i riflettori dello show di Lecter, che passeggia nella sua mente come fossero le stanze della proprio dimora: la rivolta come un guanto mostrando la sua debolezza più grande, il suo orgoglio di arrampicatrice sociale, da una degradante origine a donna in carriera. Ma è proprio nella risposta di Clarice che Lecter vede una grande forza d’animo, che la giovane accompagna alla dedizione e all’intelligenza. Il Dottore capisce di potersi rapportare alla recluta come ad un suo pari, la guida sapientemente verso la soluzione del caso, come il maestro fa con l’allievo. Ma da lei pretende un compenso: Starling gli rivela della morte del padre quando lei era ancora una bambina, della breve permanenza nel ranch degli zii, da cui fugge quando scopre gli agnelli piangere nel mattatoio familiare. Lecter gioca con la sua “vittima”, ma il suo atteggiamento apparentemente distaccato non impedisce la nascita di un rapporto dalle tinte chiaroscure. Clarice comincia a rivolgersi al Dottore come ad una figura “familiare”, come a voler colmare quel vuoto creatosi anni addietro alla morte del padre. Da parte sua, Lecter si avvicina sempre più alla giovane donna, ne segue i passi come un parente apprensivo, vede in lei quel confronto che gli è sempre mancato; dalle sbarre della cella, sfiora la sua mano con un dito, memore forse di un’emozione umana che sembra essere scomparsa dal suo petto. Dimostra il suo “particolare” attaccamento quando telefona alla donna, sul finire del girato, per chiederle se “gli agnelli hanno smesso di urlare”. 
Ci si perde così tanto tra le infinite sfumature del Dottor Lecter e tra gli alchemici intrecci che muovono lo stesso e la giovane Clarice in una funambolica danza psicologica, che si dimentica il “vero cattivo” contro cui lotta la nostra eroina, Buffalo Bill. Cresciuto da una prostituta alcolizzata tra maltrattamenti di vario genere, Bill sviluppa per la sua persona una spiccata ritrosia, desiderando un cambiamento che viene ottimamente rappresentato dalla Acherontia stix, un raro esemplare di farfalla che lo stesso Bill alleva nel suo sotterraneo degli orrori. Un particolare a tal proposito, l’immagine del lepidottero presente sulla copertina altro non è che una foto artistica di Philippe Halsman e Salvador Dalì, “In voluptas mors”, che imprime sette nudi di donna: il riferimento è alla volontà di Bill di cambiar sesso.
In linea con la narrazione cartacea è, anche, la caratterizzazione del Dottor Chilton, stravagante direttore della prigione di Lecter: sembra che tra i due ci sia una competizione molto strana, alimentata dalla frustrazione di Chilton, la cui analisi non è mai riuscita a superare le barriere mentali del Dottore, che, invece, si prende gioco di lui, ridicolizzandolo.
Da notare anche la presenza sempre formale ma sottilmente amorevole di Crawford, superiore diretto della Starling. Jack crede in lei, le da un’opportunità, superando i clichè maschilisti che l’FBI dell’epoca non aveva ancora abbandonato. La sua fiducia è assolutamente ripagata, anche se sembra che Clarice abbia scelto un altro mentore.
Soggetto indiscusso della pellicola è il male, interpretato nelle sue forme è reso splendidamente non solo da un cast formidabile, ma da atmosfere spettrali, a tratti opprimenti, e da una colonna sonora lugubre e carica di tensione. L’oscurità preme tra le cornici dello schermo avviluppando lo stesso spettatore. Ma tra le
ombre c’è sempre una crepa da cui filtra la luce.


Vanno ricordate alcune differenze fondamentali tra il romanzo e il film.
 Prima di tutto, cambiano nella versione di Ted Tally le vicissitudini che portano all’incontro tra Hannibal e Bill: nel libro, la testa che Clarice trova nel magazzino “dentro te stesso” è quella di un certo Klaus, amante di Benjamin Raspail, paziente del Dottor durante gli anni di esercizio della professione; pare che sia stato proprio Bill ad uccidere l’amante di Raspail, geloso del nuovo compagno. Nel film, la testa appartiene allo stesso Raspail se non si fa alcun riferimento a Klaus.
Non si fa riferimento, ne “Il silenzio degli innocenti” come nelle altre trasposizioni cinematografiche della saga di Harris, alla polidattilia di Lecter. Il Dottore presenta un medio di troppo alla mano sinistra: provvederà all’eliminazione del difetto, quando, scappato in Brasile, si sottoporrà anche ad un lieve intervento di plastica facciale, alterando minimamente le sue caratteristiche somatiche ma che basterà a farlo diventare un’altra persona.
Nel film non compare la figura di Bella, moglie di Crawford, in coma per una malattia in stadio terminale. Di conseguenza, manca il tormentato  stato di preoccupazione di Jack che permetterà anche un ulteriore avvicinamento con Clarice.
Infine, la pellicola si conclude con la telefonata di Hannibal a Clarice, conclusasi con il cenno all’imminente omicidio di Chilton. Nel romanzo, Lecter invia una lettere a Clarice ed una a Crawford per porgergli le condoglianze per la morte di Bella; il corpo di Chilton verrà ritrovato solo nel libro successivo.

Va rivolta l’attenzione, a questo punto, ad alcune curiosità particolari su girato ed entorurage.
Il sinistro risucchio fatto a denti stretti dal Dottore, al momento di ricordare un terribile omicidio, è frutto di una riuscitissima improvvisazione di Hopkins, che dimostra ancora una volta la sua grandissima capacità di immedesimazione. A tal proposito va anche ricordato che, Hopkins si è preparato alle riprese assistendo a moltissimi processi e accuse ad assassini; non ha mai ascoltato, però, i nastri riportanti l’audio delle torture registrati da alcuni killer durante i propri crimini, preparati appunto per Hopkins e per Jodie Foster dal regista Demme; nemmeno la Foster utilizzerà le registrazioni. Inoltre, Hopkins, ha riprodotto quell’immobilità dello sguardo che aveva notato in Charles Manson, il quale sbatte raramente le palpebre quando parla.
Oltre che a Ed Gain, il personaggio di Buffalo Bill si ispira ad altri famosi criminali, tra i quali Jerry Brudos, Ted Bundy, con cui condivide il modus operandi (adescare le proprie vittime fingendo menomazioni articolari), Gary M. Heidnik e Edmund Kemper,  per la simile infanzia triste e turbolenta e l’assassinio dei nonni; tuttavia, Kemper si avvicina anche al personaggio di Lecter: gli viene calcolato un Q.I. di 136, dimostrandosi furbo e scaltro anche nel manipolare le persone a lui vicine, e sarà lui stesso ad ammettere di aver mangiato la sua terza vittima: “Effettivamente ho divorato in parte la mia terza vittima. Ho tagliato dei pezzettini di carne che avevo conservato nel congelatore. Una volta scongelata, ho cotto la carne in un pentolino con delle cipolle. Poi ho aggiunto della pasta e del formaggio”.
Interessanti sono anche le vicissitudini che hanno portato la Foster a partecipare alle riprese del film. Va innanzitutto ricordato che la Foster rischia di lasciare le scene, quando, il 30 Marzo 1981, Jonh Hinckley Jr., un giovane fortemente attratto dall’attrice, che aveva già tentato di avvicinare durante gli anni a Yale, attenta alla vita del Presidente Ronald Reagan, ferendo quattro persone tra cui il presidente stesso. Fortunatamente la Foster si riprende dall’accaduto dopo aver meditato l’abbandono. E la ripresa è delle migliori: il suo primo Oscar. Medita, quindi, di comprare i diritti del romanzo di Thomas Harris “The silence oh the lambs”, ma viene preceduta. La direzione del film viene inizialmente affidata a Gene Hackman, che sceglie per il ruolo di Clarice Michelle Pfeiffer; subentra, poi, alla direzione, Jonhatan Demme che recluta, invece, Meg Ryan. Successivamente il posto rimane nuovamente vacante, e proprio la Foster a richiedere almeno la proprio partecipazione al girato, divenendo la seconda attrice più giovane a vincere due Oscar come miglior attrice. Al momento della premiazione con la seconda statuetta, e la stessa a dimostrare forte spirito femministico,dedicandola: “Alle donne che sono venute prima di me e che, a differenza di me, non hanno avuto nessuna chance, alle sopravvissute, alle emarginate.”


Anthony Hopkins, superbo in questa interpretazione, da eternità ad un personaggio che sembra nascere dalla penna di Harris per essere impersonato solo da lui: riceve (forse ingiustamente) l’unico Oscar della sua carriera proprio partecipando al “Silenzio degli innocenti”, suggellando la fine della crisi che l’aveva visto afflitto da alcolismo già dalla metà degli anni ’70. E pensare che recita effettivamente per soli 16 minuti, ottiene anche il primato per l’”Oscar più breve della storia”. L’eccezionalità della performance passa anche per il magnifico doppiaggio di Dario Penne, voce ufficiale di Hopkins durante l’arco della sua carriera. La sua magnifica controparte, Jodie Foster, non può che seguirlo sul palcoscenico Hollywoodiano, portando a casa il suo secondo Oscar: nonostante la sua giovanissima interpretazione in “Taxi Driver” e il suo primo Oscar, a premiazione dell’interpretazione in “Sotto accusa” (1989), è Clarice Starling a consacrarla definitivamente nell’olimpico mondo del cinema americano. I due interpreti dimostrano un feeling consolidato, una vicinanza quasi tangibile, frutto di una preparazione impeccabile; tuttavia, Hopkins lavora di sua iniziativa quando, analizzando a fondo la giovane Foster, colpendola nel segno conoscendo il vero trascorso dell’attrice, da vita ad una delle scene indelebili del film, dimostrando il suo immenso talento e dando un importante lezione alla Foster , che sentitamente ringrazia il “maestro” a cineprese spente.
Il cast è completato da ottimi elementi, come Ted Levine,  Anthony Heald e Scott Glenn, che sono un’ottima cornice per il duo principale.
La conta degli Oscar non è, però, finita. Il regista, Jonhatan Demme, è il migliore dell’anno: la narrazione curata nei minimi dettagli, i dialoghi brillanti, le atmosfere pesanti, i giochi di tensione, giustificano un Oscar veramente meritato. Anche la sua “spalla”, Ted Tally, porta a casa l’Oscar per la migliore sceneggiatura non originale, riadattando in maniera fluida e diretta il romanzo di Harris; come tutti i “riadattamenti”, ci sarebbe da ridire circa qualche particolare omesso ma , l’essenzialità della trama di Harris viene mantenuta ed il risultato è un premio meritato. Meritano assolutamente menzione Kristi Zea, alla scenografia, e Tak Fujimoto, alla fotografia. La prima da vita alle agghiaccianti atmosfere redatte da Harris, raggiungendo l’apice nella costruzione della gotica prigione di Lecter e nella realizzazione del labirinto sottostante la casa di Bill, in cui egli sevizia le sue vittime e affronta la Foster. Il secondo riesce ad immortalare splendidamente alcuni momenti della pellicola che rimangono impressi nella memoria e nel cuore dello spettatore.
L’ultimo premio spetta al prodotto finito, l’Oscar a miglior film, a testimonianza delle’elevazione della pellicola a capolavoro senza tempo.

VOTO 8/10.


Marco Fiorillo
                                                                                                                                                      
Pier Lorenzo Pisano