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venerdì 4 novembre 2011

The Holding (2011)


Kierston Wareing: Cassie Naylor
Vincent Regan: Aden
David Bradley: Cooper
Skye Lourie: Hannah
Maisie Lloyd: Amy
Terry Stone: Karsten
Mark Cooper Harris: Mick
Jake Curran: Noah
Jarmod Cooke: Jed
Regia: Susan Jacobson
Sceneggiatura: James Dormer
Fotografia: Nic Lawson
Musica: James Edward Barker, Natalie Ann Holt

Tra le campagne inglesi vivono le tre ragazze Naylor, Cassie (Kierston Wareing) con le due figlie Hannah (Skye Lourie) e la piccola Amy (Maisie Lloyd). Cassie dimostra una forza incrollabile nel portare avanti la famiglia, gestendo la fattoria insieme all’amico Cooper (David Bradley), tra svariate difficoltà economiche e vicini piantagrane. Dietro tanta tenacia la donna nasconde una terribile verità: l’omicidio del marito Dean, reo di aver dimostrato carnali attenzioni nei confronti della figlia Hannah. Come ricompensa alle innumerevoli prove cui sono già state sottoposte, alle tre sembra che la fortuna voglia arridere, quando presenta sulla loro porta Aden (Vincent Regan), un vecchio amico di Dean che si propone come aiutante nella malmessa fattoria in cambio di vitto ed alloggio. Nonostante la fiducia primamente accordatagli, le ragazze Naylor scopriranno che la loro tempra deve essere sondata ancora una volta.
Thriller tutto britannico, “The Holding” è stato distribuito nelle sale inglesi il 9 Settembre di quest’anno senza fare tappa nei cinema italiani. Un rammarico equamente bilanciato dalla qualità del prodotto.
La pellicola prosegue con ritmo esageratamente compassato, quasi privo di emozioni per buona metà, delineando più i tratti del dramma familiare che del thriller. Leggeri sobbalzi narrativi non frastagliano la calma della prima parte, che la regista Susan Jacbson tenta di sconvolgere nell’ultima mezz’ora, fallendo sia per presa emotiva che per narrato. La storia appare scontata così come sono prevedibili i già limitati sobbalzi dello spettatore. Merita una menzione positiva la resa scenica dei ricordi di Cassie /Wareing, interessante come scelta e come realizzazione.
L’ennesima idea sprecata, dunque, nonostante la presenza di validi presupposti. Il quartetto principale, costituito dalle giovani Skye Laurie e Maisie Lloyd, dall’attrice britannica Kierston Wareing e da Vincent Regan, famoso per le sue parti in “Troy” e “300”, da vita ad un’interpretazione piatta, sufficiente, motivata anche ad una conduzione registica sicuramente discutibile. Le scene si susseguono sullo schermo quasi distaccate tra loro mentre l’attenzione passa dalle dinamiche familiari all’individuazione del “nemico”, in un ipotetico crescendo di tensione che rimane, purtroppo, semplicemente ipotetico.

Warrior (2011)


Tom Hardy: Tom Conlon
Joel Edgerton: Brandon Conlon
Nick Nolte: Paddy Conlon
Jennifer Morrison: Tess Conlon
Frank Grillo: Frank Campana
Noah Emmerich: Dan Taylor
Kevin Dunn: Joe Zito
Kurt Angle: Koba
Gavin O’Connor: JJ Riley
Regia: Gavin O’Connor
Soggetto: Gavin O’Connor, Cliff Dorfman
Sceneggiatura: Gavin O’Connor, Cliff Dorfman, Anthony Tambakis
Produzione: Gregory O’Connor
Fotografia: Masanobu Takayanagi
Musiche: Mark Isham
Scenografie: Dan Leigh

Dopo quattordici lunghi anni, l’ex marines Paddy Conlon (Nick Nolte) rincontra il figlio Tommy (Tom Hardy), scappato di casa con la madre morente, quando i suoi eccessi da alcolista erano oramai intollerabili. Mentre a Pittsburgh Paddy comincia ad allenare Tom, desideroso di riaccendere l’indole di lottatore sul ring di Sparta, un torneo internazionale di MMA (n.d.r. Mixed Martials Arts), a Philadelphia, Brandon Conlon (Joel Edgerton), primogenito di Paddy, professore di fisica di mattina e combattente di sera, tenta disperatamente di tenere a galla la famiglia, supportato dalla moglie Tess (Jennifer Morrison). Causa proprio la sua “seconda professione”, Brandon viene sospeso dall’insegnamento. Senza lavoro e con poco meno di tre mesi prima del pignoramento della propria abitazione, il professore decide di ricominciare a combattere, chiedendo l’aiuto dell’amico e allenatore Frank Campana (Frank Grillo). L’astio reciproco dei tre Conlon, sopito per anni da lontananza e silenzi, scoppierà nella gabbia di Atlantic City in un’esplosione di emozioni e ardore sportivo.
“Warrior”è il titolo della nuova pellicola di Gavin O’Connor. Un titolo che può facilmente trarre in inganno, preparando lo spettatore ad un film sulla semplice vicenda sportiva del combattimento. Ma i “guerrieri” di O’Connor combattono le proprie battaglie prima fuori dal ring. Due fratelli divisi nell’adolescenza da un padre ubriacone, sono diventati uomini lontani l’uno dall’altro, portando dentro di sé l’odio per quella separazione. Hanno intrapreso strade diverse, sono cresciuti in maniera diversa. L’uno, Tommy/Hardy ha cercato una nuova famiglia nei marines, l’altro, Brandon/Edgerton, ha creato una nuova famiglia. Senza famiglia è rimasto Paddy/Nolte, reo e disperato che cerca espiazione in un’improbabile riconciliazione col Signore e nell’ormai tarda astensione dall’alcol. Quattordici anni di muti rancori scoppiano nella violenza fisica delle Mixed Martials Arts, quando entrambi decidono di partecipare ad un importante torneo. A Tom non rimane che se stesso e combattere sembra essere l’unica cosa che gli riesca come al padre vale per l’allenamento. Brandon “combatte per il pane”, per dirla alla J. J. Braddock (n.d.r. Si tratta del pugile interpretato da Russel Crowe in “Cinderella Man”). Sono tre guerrieri, tre eroi moderni che fanno del perdono e della forza d’animo le loro armi.
Il riscatto emotivo del “Rocky” interpretato da Tommy, la tenacia alla “Braddock” di Brandon, la vicinanza ai fratelli Micky e Dicky (“The Fighter”), sono amalgamati con mano sapiente da Gavin O’Connor in una vicenda tutta nuova. Dramma familiare, prima di tutto, incorniciato da una coinvolgente vicenda emotiva, “Warrior” irrompe sullo schermo con un’incredibile forza emotiva. Le intense interpretazioni del trio protagonista, la veridicità con cui i loro personaggi vengono portati sulla scena, la miriade di parole che gridano con sguardi e gesti emozionano fino alle lacrime, mentre l’adrenalina del combattimento fa saltare dalla sedia ad ogni colpo. I toni cupi delle due periferie, la coinvolgente colonna sonora, i dialoghi ed i silenzi contribuiscono all’elevatissima qualità della pellicola.
Dopo anni di gavetta arrivano meritatamente al successo Tom Hardy e Joel Edgerton. Impressionante per l’estrema fisicità, Hardy cominciò la carriera appena terminati gli studi, partecipando alla seria della HBO “Band of Brothers” e a “Black Hawk Down sotto la direzione di Ridley Scott; a seguito dell’esordio cinematografico, Hardy passò a calcare i palchi teatrali ottenendo anche svariati riconoscimenti; l’impegno profuso ha portato all’ottima annata del 2010: oltre a “Warrior”, Hardy è stato scelto da Chris Nolan prima per recitare in “Inception” e poi nel terzo ed ultimo capitolo della sua reinterpretazione di Batman, in cui vestirà i panni del nemico Bane. Edgerton, da par sua, ha partecipato al secondo e terzo episodio della saga di “Star Wars”, nei panni di Owen Lars, collaborando sul set anche col fratello Nash, controfigura di Ewan Mc Gregor. Al loro fianco l’esperienza del vissuto Nick Nolte e l’ottima direzione di Gavin O’Connor: dopo il successo riscosso con “In cerca d’amore” (1999), e la fondazione, insieme al fratello produttore Gregory, della Final Cut Features, agenzia impegnata nel finanziamento di progetti di registi emergenti, O’Connor ha realizzato “Miracle”, film che narra la storia della squadra statunitense di hockey su ghiaccio del 1980, e “Pride and Glory”, vicenda poliziesca incentrata sulle vicende familiari dei protagonisti, quasi a voler preparare il terreno a “Warrior”, mistione di entrambi i momenti narrativi. La scelta del cast restante celebra il percorso intrapreso per i protagonisti, preferendo il talento al nome: Frank Grillo e Jennifer Morrison, perfettamente duttili dopo le varie partecipazioni a serie tv, Noah Emmerich e Kevin Dunn, familiare al pubblico per la sua partecipazione alla trilogia de “Transformers”. Non poteva mancare anche una vera componente sportiva, rappresentata dal wrestler Kurt Angle.
Un film intelligente e mai banale. Una storia forte, emozionante raccontata in modo straordinario. Un capolavoro dei tempi moderni.
VOTO 9/10
Marco Fiorillo
Pier Lorenzo Pisano

Pina 3D (2011)


Pina
Titolo originale: Pina
Germania: 2011. Regia di: Wim Wenders Genere: Musical Durata: 111'
Interpreti: Pina Bausch, Regina Advento, Malou Airaudo, Ruth Amarante, Rainer Behr, Andrey Berezin, Damiano Ottavio Bigi, Bénédicte Billet, Ales Cucek, Clementine Deluy, Josephine Ann Endicott, Lutz Förster
Sito web ufficiale: www.pina-film.de
Sito web italiano:
Nelle sale dal: 04/11/2011
Voto: 7
Trailer
Recensione di: Daria Castelfranchi
L'aggettivo ideale: Per intenditori
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Dedicato ad una grande personalità del teatro contemporaneo, l’ultimo film di Wim Wenders rende omaggio a Pina Baush, nota coreografa tedesca che ha rivoluzionato il mondo della danza. Pensato per gli intenditori, per chi ama il teatro - principalmente quello concettuale - e per chi ha conosciuto e apprezzato l’opera della Baush, Pina è un film che mette in scena le rappresentazioni più all’avanguardia dell’artista - in primis Café Müller, Le sacre du printemps, Vollmond e Kontakthof - e che riporta le testimonianze di chi ha lavorato con la grande coreografa scomparsa nel 2009.
Molto interessante dal punto di vista tecnico perché affronta la sfida del rappresentare la danza in 3D, Pina è stato realizzato grazie anche al mostro sacro della sterografia in 3D, Alain Derobe. L’intenzione di Wenders è stata quella di immortalare le coreografie della Baush nel miglior modo possibile ed il ricorso al 3D risulta certamente singolare, con un che di sperimentale.
In maniera assolutamente impercettibile, il digitale ci restituisce l’armoniosità dei corpi e delle coreografie.
E come la Baush tendeva a oltrepassare i confini tra palcoscenico e spettatore, così il regista, per mezzo dell’uso innovativo del 3D in un film d’impianto teatrale, ha voluto continuare in su questa strada: e ci è riuscito, decisamente. Innamoratosi della sua capacità di rivisitare il linguaggio del corpo, Wenders ha instaurato un’amicizia lunga e profonda con Pina Baush, con la promessa di fare presto un film insieme. Film che però non ha mai visto la luce a causa dei fitti impegni di entrambi: ma con Pina, il regista ha realizzato un tributo e un sogno.
Nel teatro di Pina Baush le parole contano poco: è tutto affidato alla danza e all’espressione del corpo.
“Pina era una pittrice”, “Pina era forza, dolore, solitudine”. Il film di Wim Wenders ci porta a Wuppertal, luogo che per ben 35 anni è stato il cuore della creatività di Pina Baush ed è il primo film d’autore in 3D.
Iniziato nel 2009, al momento della morte improvvisa e inaspettata della coreografa, il progetto è stato accantonato ma, in seguito alle richieste della famiglia e dello staff, è andato avanti.
Il risultato è un’opera emozionante, che rende omaggio ad una donna che ha saputo fondere teatro e danza in una forma artistica a sé stante e ha fatto dei concetti di speranza e realismo, il fulcro del suo insegnamento.
Il film di Wenders sarà presentato nella sezione Eventi Speciali del prossimo Festival Internazionale del Film di Roma.

The Tomorrow Series (2011)


The tomorrow series - Il domani che verrà
Titolo originale: Tomorrow, When the War
USA, Australia: 2011. Regia di: Stuart Beattie Genere: Azione Durata: 105'
Interpreti: Rachel Hurd-Wood, Phoebe Tonkin, Caitlin Stasey, Lincoln Lewis, Matthew Dale, Masa Yamaguchi, Deniz Akdeniz, Chris Pang, Ashleigh Cummings, Andy Minh Trieu, Andrew Ryan, Andrew Liam Pringle, Julia Yon
Sito web ufficiale: www.twtwb.com
Sito web italiano:
Nelle sale dal: 04/11/2011
Voto: 6
Trailer
Recensione di: Dario Carta
L'aggettivo ideale: Peculiare
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The tomorrow series - Il domani che verrà su Facebook
Quando il cinema attinge dalla letteratura seriale,passa al vaglio di un discernimento spesso impietoso e sovente affetto da un qualunquismo valutativo tanto inutile quanto insolente.
"Il Signore degli anelli" e la saga di "Harry Potter" su cellloide sono segni di espressioni distinte dalle rispettive fonti d'ispirazione,informazioni artistiche con anima e respiro gelosamente custodite da una identità propria.
La valutazione comparativa fra due opere con medesimo soggetto ma differente comunicazione,ridurrebbe lo stato dell'arte ad una monocromia espressiva svilita nella futilità di un irritante paragone.
"Tomorrow,When the War Began",dello scrittore australiano John Mardsen, è il romanzo cultuale,pressochè ignorato in Europa fatto salvo per il Regno Unito,che i giovani adulti australiani hanno eretto a status sociale fin dai primi anni '90,l'episodio letterario parallelo a quello della Rowling,ma di differente sostanza,portato sui banchi delle scuole del Paese,incluso nel Consiglio dei Libri per l'Infanzia Australiano e considerato uno dei migliori libri di fantascienza dall'Associazione Americana delle Biblioteche.
Il primo libro ha generato sei sequel,un'immensità di speculazioni di carattere politico e un adattamento per il grande schermo,scritto e diretto dall'australiano Stuart Beattie,dotato autore di sceneggiature della stregua di "Collateral","Australia","30 giorni di buio" "G.I. Joe" e collaboratore nella stesura degli script della serie dei "Pirati dei Caraibi".
Uno sguardo oltre la vuota analisi nei territori di pertinenza emotiva su prodotti per lo schermo o pagine stampate e su come questi mezzi possano veicolare emozioni o valutazioni confrontabili fra loro,conduce a serie considerazioni su un cinema di largo consumo,nato su ispirazioni a serialità su stampa di enorme accesso e caratterizzato dai tratti di una spettacolarità di inaspettato pregio e spessore (..."E' bello,il libro?" "Meglio del film" "Di solito,i libri lo sono"...)
Il merito di Beattie è stato quello di aver saputo raccogliere il senso dell'avventura che permea il romanzo e di averlo valorizzato nell'esplorazione della natura di sentimenti forti quali paura e coraggio,in un racconto fantastico pervaso di profondità ed equilibrio,dove avventura e fantascienza lambiscono territori inquieti venati di innocente violenza,senza offrire il fianco ad allegorie politiche di natura promiscua.
Con la sua regia,Beattie ha innervato "Tomorrow" del carisma istintivo e carnale di Hollywood,restando fedele al fil rouge dell'opera originale,l'indagine caratteriale dei protagonisti illuminati nelle loro personalità percorse dai fremiti della sorpresa ma incollati nell'amicizia e nella collaborazione e privilegiando lo sguardo interiore del cinema prudente alla retorica e all'attività spettacolare.
Come nel romanzo,la storia è narrata dalla voce della protagonista Ellie (Caitin Stasey) che,con una manciata di compagni di scuola della cittadina di Wirrawee,decide di festeggiare la fine dell'estate passando un weekend tutti insieme in una lontana località chiamata Hell. I giochi,gli scherzi,le usuali discussioni e i bisticci davanti al falò notturno,scandiscono la spensieratezza del gruppo di amici,ma pochi di loro si accorgono del continuo passaggio di aerei militari sopra di loro.
Al loro ritorno a Wirrawee,lo spettacolo è sconvolgente. I ragazzi trovano i loro cani morti,i genitori sono spariti e la cittadina è immersa nel silenzio caotico della paura.
Militari di una potenza straniera sono dovunque,in evidente stato di guerra,deportando cittadini verso i campi di concentramento ed occupando ogni proprietà. Al devastante effetto di di sorpresa e terrore che invade i ragazzi ("... No! Non può capitare questo! Non in questo Paese!..."),fa subito seguito la decisione di imbracciare le armi ,indurire il volto e reagire con fermezza alla violenza dell'invasore. E' un nemico che non ha volto,nè nulla viene raccontato di lui.
La minaccia asiatica è solo nell'eco di un pericolo più sordo ed invisibile ai sensi e alla codifica etnica. Le uniformi non portano colori,la movenze dei soldati sono disumanizzate e percepite solo come movimenti meccanici,i visi dei militari sono avvolti nei veli di un'ombra insistente e l'intuizione viene condotta altrove,lontana dai connotati politici e più confinante alle reazioni dei protagonisti coinvolti nel dramma ("...Che differenza fa una bandiera?").
Più che alla conformazione politica di deduzioni nazionalistiche,il regista è attento ad estrarre dalle righe del romanzo l'intenzione dell'autore per tradurlo e svilupparlo nel linguaggio del cinema intelligente,imbastendo il racconto su diversi livelli di dinamiche ed effetti. L'invasione appare allora solo come palcoscenico ospitante il nucleo della storia e il film non è più solo scenario,avventizio riferimento pretestuale,ma diventa il racconto di persone,del loro divenire e del loro viaggio all'interno di sè stessi e di una condizione interrelazionale che si fa legame forte e struttura portante della narrazione.
E' qui che il film fugge alla precaria ordinarietà del cinema dell'adolescenza e cresce in consistenza visiva e psicologica.
Non vengono negate sequenze di esplosioni battaglie e sparatorie,ma il ritmo non si limita all'immagine ma scandisce il tempo della ricerca interiore e della solidità affettiva. L'impianto narrativo,i dialoghi,la fotografia,il montaggio,lo score,tutto concorre a tessere un'esperienza visiva d'effetto,salda,fluida e cucita in un racconto facile preda della banalità,ma,al contrario schiva di ogni senso del superfluo e dello scontato.
Prudente raffinatezza ed occhio attento all'esposizione recano l'omaggio ad una impostazione registica che si rifà al respiro accorto di Spielberg,in scene che riportano agli "Incontri ravvicinati","E.T." o,trasversalmente,al "Super 8" di J.J. Abrams (cfr. l'arrivo dei ragazzi a Wirrawee di notte,il loro appostamento e l'osservazione dall'alto del campo di raccolta,pervaso da fasci di luce e bagliori che squarciano l'oscurità,tagliati dai comandi di voci microfonate disperse nel buio violentato dai lampi). "Tomorrow,When the War Began" è l'ellissi di un cinema giovane e intelligente,felice mezzo per veicolare la semplicità dello spettacolo per ogni età,affrancato dalle noie dell'ovvietà e termine non scontato in una deprimente panoramica di povertà ideologica ma immagine sincera della freschezza dove avventura e fantascienza si sposano per regalare sogni a colori.

The Lady (2011)


The Lady
Titolo originale: The Lady
Francia, Gran Bretagna: 2011. Regia di: Luc Besson Genere: Drammatico Durata: 145'
Interpreti: Michelle Yeoh, David Thewlis, William Hope, Martin John King, Susan Wooldridge, Sahajak Boonthanakit, Nay Myo Thant, Marian Yu, Guy Barwell
Sito web ufficiale:
Sito web italiano:
Nelle sale dal: Roma 2011
Voto: 9
Trailer
Recensione di: Daria Castelfranchi
L'aggettivo ideale: Epico
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Dopo pellicole indimenticabili come Leòn o blockbuster fantascientifici come Il quinto elemento, Luc Besson cambia rotta e dirige un film di ampio respiro con il quale rende omaggio a una donna forte del nostro tempo.
Una donna premio Nobel per la pace, che ha saputo sfidare la dittatura della Birmania e ha cercato di promuovere la democrazia e la difesa dei diritti umani.
Una donna che ha sacrificato marito e figli per il suo paese. Una donna rimasta per anni agli arresti domiciliari. Aung San Suu Kyi. Liberata solo un anno fa, nel Novembre del 2010, mentre le riprese del film erano ancora in corso.
Luc Besson ha lasciato la politica sullo sfondo per concentrarsi sulla protagonista e metterne in risalto la dimensione umana e personale.
Dagli anni ’80 fino alla metà del 2000, gli eventi vengono raccontati attraverso una regia ariosa, una musica di grande impatto emotivo e un’interpretazione strabiliante di Michelle Yeoh, affiancata da un altrettanto eccellente David Thewlis.
Il film scorre attraverso continui salti di tempo e di luogo: da Rangoon a Oxford, dalla fine degli anni ’80 al decennio successivo, ci viene narrata l’epopea di un’eroina del ventesimo secolo, che dovrebbe essere di esempio per tutti gli uomini di potere. Niente sparatorie, niente sante date al rogo, niente piccole creature di un mondo magico.
Questa volta il regista francese ha raccontato la storia di una donna in un paese che, ad oggi, nega ancora fortemente i diritti umani mediante il ricorso a stupri, violenze e sopraffazioni. Il regista svela l’intimità di Suu: il suo dolore nello stare lontana dalla famiglia, la sua forza e la sua caparbietà nel contrastare il regime.
Lo fa con un film potente e commovente che punta sulla ricostruzione storica e sull’esaltazione del coraggio e della forza d’animo della protagonista. Una donna che ha fatto della non-violenza la sua unica arma. E che il regista si augura possa presto diventare primo ministro del suo paese.
Una donna che in ogni situazione ha sempre mantenuto un’eleganza e una regalità che contraddistinguono solo le persone forti. Quella di The lady è la storia di una battaglia lunga un ventennio. Il ritmo scorre lento come gli anni di prigionia di Aung San Suu Kyi ma non è una lentezza che si avverte fisicamente.
E il tutto è accompagnato da una splendida musica, spesso malinconica che sottolinea la speranza, mai morta, della signora che tutti conoscono come “L’orchidea di acciaio”.

Hysteria (2011)


Hysteria
Titolo originale: Hysteria
Gran Bretagna: 2011. Regia di: Tanya Wexler Genere: Commedia Durata: 95'
Interpreti: Maggie Gyllenhaal, Hugh Dancy, Rupert Everett, Jonathan Pryce, Felicity Jones, Anna Chancellor, Gemma Jones, Tobias Menzies, Kate Linder, David Ryall
Sito web ufficiale:
Sito web italiano:
Nelle sale dal: Roma 2011
Voto: 8
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Recensione di: Daria Castelfranchi
L'aggettivo ideale: Audace
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Rupert Everett torna al cinema con un delizioso film dal sapore molto british. Inglese per ambientazione, il film vanta la regia di un’audace regista americana e di un altrettanto temerario sceneggiatore texano. Perché sono entrambi da definire così coraggiosi?
Perché hanno avuto l’ardire di raccontare la storia dell’invenzione del vibratore, nato per curare l’isteria delle donne. Donne che probabilmente non erano soddisfatte del proprio matrimonio ed erano relegate ai lavori domestici e alla cura della famiglia.
Donne che Maggie Gyllenhaal, con il suo caparbio personaggio, cerca di scuotere dal torpore per condurle verso la parità dei sessi, il voto, l’università. In una commedia divertente e dotata di un eccezionale sense of humour.
Tania Wexler ha raccontato un argomento tabù, affrontandolo con delicatezza e una sana ironia, in barba ai bigotti e ai puritani. Rupert Everett interpreta un personaggio a lui noto, quale il gentleman inglese, simpatico e un po’ irriverente: il suo Edmund è un inventore da strapazzo che realizza gli oggetti più disparati ed è uno dei primi a possedere e utilizzare il telefono, in una serie di conversazioni di volta in volta più spassose.
Seppur lasciata sullo sfondo, la situazione politica dell’epoca, con l’avvento delle suffragette, emerge nel personaggio interpretato da Maggie Gyllenhaal: una donna che si discosta dalle imposizioni paterne per dedicarsi alla cura dei più bisognosi e per ribellarsi alla condizione delle donne, mere casalinghe che non hanno la minima possibilità di esprimere il proprio io. Il suo personaggio ricorda la studentessa di Mona Lisa Smile ma qui, abbandonate le gonne a ruota degli anni ’50, l’attrice combatte per una giusta causa.
Ottima la scenografia che restituisce la Londra vittoriana, con tanto di carrozze, abiti vaporosi e la strumentazione ginecologica che è tutta da ridere. Perfetto Hugh Dancy nel ruolo del giovane medico che si procura una contrattura alla mano a forza di praticare manovre molto particolari alle sue pazienti.
Audace progetto, come si diceva all’inizio: la regista ha infatti raccontato di aver avuto non poche difficoltà a trovare finanziamenti per il suo film ma che, alla fine, agli inglesi che lo hanno visto per primi, Hysteria è piaciuto molto.
Tra le risate dei giornalisti, attori, regista e sceneggiatore hanno raccontato di come gli uomini si siano mostrati reticenti ad accettare il film perché non vedono di buon’occhio il loro nemico giurato, ovvero il vibratore.
Lo stesso Rupert Everett ha parlato della teoria secondo cui la stessa regina Vittoria abbia fatto uso del vibratore, guarendo così dall’isteria.
Consigliabile dunque per coloro che sanno ridere di un argomento tabù e che, soprattutto, apprezzano l’ironia tipica dei film inglesi.

giovedì 3 novembre 2011

Merlino (1998)


Ciclo "Per non dimenticare": Sfogliando una pellicola

Sam Neill: Merlino
Miranda Richardson: Maab
Isabella Rossellini: Nimue
Rutger Hauer: Vortigern
Helena Bonham Carter: Morgana
John Gielgud: Costantino
Paul Curran: Artù
Martin Short: Frick
Lena Headey: Ginevra
Jeremy Sheffield: Lancillotto
Jason Done: Mordred
Billie Whitelaw: Ambrosia
Regia: Steve Barron
Sceneggiatura: Peter Barnes, David Stevens
Fotografia: Sergej Kozlow Ayers
Effetti Speciali: Tim Webber Ayers
Musiche: Trevor Jones
Scenografie: Roger Hall Dreville
Costumi: Ann Hollowood

Cavalieri valorosi e amori proibiti, streghe e folletti , duelli e cospirazioni. Ci sono tutti gli argomenti della classica opera cavalleresca che per l’occasione trova una piacevolissima riproposizione su celluloide, di quelle che si ricordano per la bella narrazione e la semplicità.
Quando il verbo del Signore Iddio comincia a diffondersi nell’isola di Britannia, la strega Maab (Miranda Richardson), preoccupata dell’imminente scomparsa dei culti che la facevano protagonista decide di “creare” un apprendista che possa mantenere alta la fede del popolo inglese. È così che nasce Merlino (Sam Neill), cresciuto dall’amorevole zia Ambrosia (Billie Whitelaw) fino quando la magia non si manifesta in lui al momento di salvare la giovane Nimue (Isabella Rossellini), unico grande amore della sua vita. Il giovane mago viene reclamato da Maab, desiderosa di sottoporlo agli insegnamenti del folletto Frick (Martin Short). Nonostante l’ottima predisposizione, in Merlino prevale la componente umana che lo allontana da Maab, allontanamento trasformatosi in odio al momento della scoperta degli assassini della propria madre naturale e della cara Ambrosia per mano della strega. Merlino giura, così, di dirigere i propri poteri solo contro Maab, ma la donna ha altri progetti per lui. Ad attendere il mago ci sono ancora i due Re Uther e Vortigern, Morgana (Helena Bonham Carter) e Artù (Paul Curran), Ginevra (Lena Headey) e Lancillotto (Jeremy Sheffield): il momento dello scontro finale non arriverà tanto presto.
Correva l’anno 1135 quando il chierico Goffredo di Monmouth delineò primamente la Materia di Britannia, meglio conosciuta come Ciclo Bretone. Le leggende ed i racconti che hanno alimentato la storia dell’isola a partire dal Basso Medioevo, hanno continuano ad ispirare i letterati moderni che ne hanno ampliato i confini: celebri sono le opere di Mark Twain, di John Steinback ed ancora di Marion Zimmer Bradley. Una saga che ha imposto un fascino millenario e coinvolgente, costituendo un vero e proprio patrimonio culturale universale, non poteva non essere preda della “Macchina dei Sogni”, che ne ha dato svariate riproposizioni in altrettante versioni. Tra queste la produzione firmata Steve Barron, “Merlin” appunto, un film per la televisione il cui format “ridotto” traspare solo dalla durata del girato. Il regista ha il merito di reinterpretare in una chiave tutta nuova la figura del Mago più famoso di tutti i tempi, riscoprendone la parte umana, fatta di illusioni, speranze mal riposte ed errori. In primo piano passa la conflittualità religiosa tra il vecchio paganesimo e il nuovo credo cristiano, intessuta tra le pieghe degli accadimenti che si susseguono sullo schermo, raccontati con maestri a proprio da Merlino/Neill, nell’inedita veste di cantore medievale. L’universo magico viene ricostruito con effetti speciali semplici e, forse per questo, più vicini allo spettatore, ulteriormente immerso nella storia dalla coinvolgente colonna sonora. Nota dolente, come accennato, l’eccessiva durata della pellicola che comunque rispetta la destinazione televisiva, probabilmente ripartibile in più puntate (come avvenuto nella distribuzione italiana).
Come nella migliore tradizione statunitense, nonostante non si parli di un film da sala cinematografica, il cast è ricco. Il neozelandese Sam Neill è alla testa dell’entourage nei panni di Merlino: lanciato al successo da “Jurassik Park” e da “Il seme della follia”, fornisce l’ennesima ottima prova. Al suo fianco spiccano Miranda Richardson, affermata attrice teatrale prestata poi al Grande Schermo, la figlia d’arte Isabella Rossellini, l’allora nascente stella Helena Bonham Carter, il futuro mattatore canadese dei Talk Show Martin Short e gli affermati Rutger Hauer e Billie Whitelaw. Il gruppo è diretto da Steve Barron, avviato alle collaborazioni con artisti del panorama musicale e poi avvicinatosi alle produzioni cinematografiche. Il regista usufruisce della fotografia di Sergej Ayers, delle competenze in materia di effetti del fratello di quest’ultimo Tim, e, soprattutto, del talento del compositore sudafricano Trevor Jones, le cui lodi sono meno cantate ma altrettanto pregevoli: è Jones ad aver realizzato le musiche di film del calibro de “L’ultimo dei Mohicani” e “Riccardo III”.
A volerlo confrontare con le costosissime produzioni degli anni 2000, questo film di cassetta a cui i limiti del VHS vanno stretti fa rimpiangere il Cinema di qualche decennio fa.
VOTO 6/10
Marco Fiorillo
Pier Lorenzo Pisano