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mercoledì 18 gennaio 2012

Il Punto del Weekend


Il secondo finesettimana dell’anno nuovo ci regala la prima impennata, quantitativa e qualitativa ad un tempo. Delle otto pellicole in uscita nella sale, più della metà vantano un fattura ben sopra la media, con almeno due eccellenze. Senza ulteriori anticipazioni, andiamo a conoscere i protagonisti del weekend appena passato.

I PROTAGONISTI
Dalla penna dell’agente segreto romanziere britannico John le Carrè, lo svedese Tomas Alfredson desume il soggetto della sua secondo perla, “La Talpa”. In una Londra degli anni ’70, il Circus guidato da Percy Alleline deve fare i conti con una possibile minaccia interna, una talpa appunto, il cui debellamento è affidato all’agente pensionato George Smiley. Gary Oldman, Colin Firth, Tom Hardy, Mark Strong, John Hurt, sono solo alcuni degli attori costituenti il ricchissimo gruppo di caratteristi scelti da Alfredon, capace di mescere al loro talento un sentire cinematografico che pochi possono vantare oggi giorno.
 Ancora dagli States arriva la seconda eccellenza anticipata. Si tratta de “La Chiave di Sara”, pellicola che tratta da una nuova angolazione la strage degli Ebrei di metà ‘900: il regista francese Gilles Paquet-Brannes sceglie, infatti, di riportare alla memoria i fatti di Vel d’Hiv di Parigi, raccontati prima dal punto di vista di Sara, una bambina strappata alla casa insieme alla famiglia che riesce, però, a nascondere e salvare il fratellino, e poi da quello di Julia, che, in procinto di redigere un articolo sui fatti di Vel d’Hiv, si imbatte in Sara e nella sua storia. Una parabola struggente ed intensa fino alla commozione; una vicenda storica perfettamente impressa sulla celluloide dal talento dell’entourage tutto, sia dietro che davanti le telecamere.
“Proseguendo in classifica”, troviamo altre due pellicola d’oltreoceano e una produzione nostrana. “Non avere paura del Buio” racconta la storia della piccola Sally, trasferitasi nel Rhode Island insieme al padre ed alla sua nuova compagna nella villa appartenuta anni addietro al pittore Emerson Blackwood: la dimora ospita già dei mostruosi inquilini che non aspettano altro che l’arrivo di un bambino. Diretto da Troy Nixey ma ampiamente ispirato dalla presenza in fase di scrittura e produzione dal maestro del genere Guillermo del Toro, la pellicola rispolvera l’omonimo film per la televisione diretto nel 1973 da John Newland, realizzando un horror dalle venature popolar-religiose perfettamente mischiato ad una vicenda familiare.
Protagonisti di “Shame” sono, invece, Brandon e Sissy: malato di sesso e in continuo bisogno di appagamento fisico, lui; cantante senza fissa dimora e dal triste passato testimoniato dai tagli sulle braccia, lei. Sono fratelli ma l’unica cosa che sembrano condividere è lo straniamento dal mondo che li circonda. Ritorna il due Steve Mc Queen- Michael Fassbender, dopo l’acclamato “Hunger”, in una pellicola discussa e discutibile: la sceneggiatura poco marcata chiama, finalmente, ad un film d’interpretazione ed implicito; tuttavia, le cose non dette diventano troppe e l’attenzione viene troppo spesso distolta dal vero protagonista della vicenda, il Sesso.
Dal Made in Italy arriva “L’Industriale”, la storia di Nicola Ranieri, proprietario di una fabbrica prossima al fallimento e marito sospettoso dell’amore sfiorito della compagna: l’imprenditore dovrà abilmente dividersi tra banche poco collaborative, colleghi in ascesa, un padre da non deludere, degli operai da accontentare ed una moglie da capire. Nel tratteggiare un chiarissimo quadro dell’Italia dei giorni nostri, quella dei licenziamenti e della crisi, il regista Giuliano Montaldo costruisce una vicenda estremamente personale, impreziosita dall’ottima coppia protagonista Favino- Crescentini, dalla livida fotografia di Arnaldo Catinari e dalla sceneggiatura redatta a quattro mani dal regista stesso e da Andrea Purgatori, capaci di mantenere alta l’attenzione per tutta la durata della proiezione, regalando alla vicenda un inaspettato sbocco.
Seguono un’altra pellicola americana ed un’altra italiana. “L’incredibile storia di Winter il Delfino” si ispira alla storia vera di Winter, una femmina di delfino salvata nel Dicembre del 2005 in Florida, di cui si fa testimone il regista statunitense Charles Martin Smith, sottoponendola ad un ampio rimaneggiamento cinematografico che non ne viola l’anima. Il risultato è una storia d’amicizia indirizzata alla narrazione del profondo rispetto per tutti coloro che ogni giorno devono fare i conti con una disabilità. Tra le fila, spicca il giovane Nathan Gamble, i cui ultimi sforzi vengono premiati con l’affiancamento al senatore hollywoodiano Morgan Freeman.
Ne “L’Era Legale” troviamo una Napoli del 2020, profondamente trasformata dalla conduzione del neo sindaco Nicolino Amore, cui va il merito d’aver fatto della città una metropolita pulita dentro e fuori, grazie soprattutto alla sconfitta della microcriminalità riportata a seguito della liberalizzazione delle sostanze stupefacenti, voluta proprio da Amore. Dalla mente di Enrico Caria nasce questo mockumentary dal sapore tutto partenopeo, che con l’ausilio di validi interventi indiretti (vedi Isabella Rossellini e Carlo Lucarelli), una buona dose d’ironia e il volto noto di Patrizio Rispo, porta ancora una volta sulla scena l’attualissima polemica socio-politica. Un esperimento mal riuscito.
“Amaro” in fundo, “Succhiami”, ennesima parodia demenziale dell’universo vampiresco di Twilight, la fortunatissima serie firmata Stephanie Meyer. Prendendo le mosse dal precedente “Mordimi”, di cui però non rappresenta un sequel, la pellicola di Craig Moss riesce a mettere in piedi, per quando possibile, una comicità ancor peggiore: i ridicoli siparietti e le allusioni scaturiscono puntualmente in uscite volgari e stupide che non strappano nemmeno un sorriso.

LE SORPRESE
Tra le sorprese del fine settimana vanno segnalati due interpreti. Continuamente diviso tra piccolo e grande Schermo l’attore britannico Benedict Cumberbatch: dopo il successo ottenuto con le partecipazioni nelle serie “Hawking” e “The Last Enemy”, ha messo il suo talento a disposizione di lungometraggi come “L’altra donna del Re” e “Espiazione”, fino al più recente approdo alla serie “Sherlock”, attualmente in onda nel circuito italiano. Al fianco di Benedict, la giovanissima Bailee Madison: apparsa per la prima volta in “Un Ponte per Terabithia”, il suo enorme talento trova conferma in “Brothers”, affiancando Natalie Portman, Tobey Maguire e Jake Gyllenhaal e producendosi in un’interpretazione forte ed emozionante. I numerosi premi vinti, l’ultimo dei quali per la sua partecipazione alla serie televisione “Dott. House- Medical Division”,  fanno sperare in una carriera più che rosea.

I FLOP E I TOP
In un weekend con un tasso tecnico così elevato, stabilire i migliori ed i peggiori richiede uno sforzo ulteriore. Vediamo insieme i protagonisti che si sono segnalati negativamente:
3°.    L’ultimo gradino è occupato Steve Mc Queen. Più un richiamo che una critica per il regista di “Shame”, che sembra esagerare nel voler limitare lo strumento scrittura a favore delle immagini, laddove quest’ultime reiterano sempre lo stesso concetto.
2°.    Intermedia la posizione di Enrico Caria. Nonostante l’impegno profuso alla realizzazione del suo “L’Era Legale”, il risultato appare relativamente inconcludente, considerato anche l’obiettivo polemico.
1°.    Preannunciata la candidatura a peggiore del finesettimana di Craig Moss. Il suo “Succhiami” da prova d’una comicità offensiva anche per la riproduzione domestica: un’inutile spreco di risorse.
In ultimo i migliori della classe:
3°.    Nella parte inferiore del podio Giuliano Montaldo. A tre anni da “I Demoni di S. Pietroburgo” e a cinquanta dal suo primo lungometraggio, l’ottantenne regista regala un’altra piccola perla d’italianità cinematografica.
2°.    Medaglia di bronzo a Kristen Scott Thomas. L’attrice britannica naturalizzata francese da sfoggio del suo incredibile talento nell’ultimo “La Chiave di Sara”: dalla consacrazione de “Il paziente inglese” all’abbandono di Hollywood in favore dell’Europa e della famiglia, il suo astro non s’è mai spento.
1°.    Anche in questo caso, candidatura pienamente anticipata per Tomas Alfredson. Gli elogi servono poco quando si è dinanzi ad uno dei più apprezzati e talentuosi rappresentanti del Cinema del momento. La sua sensibilità unica, il suo stile essenziale fatto di sguardi e gesti lo rendono uno dei migliori in quello che fa.

BOX OFFICE
Si ritaglia un posto al vertice dei botteghini “La Talpa”, che con 1.114.278€ raccolti nelle prime quarantotto ore registra duplice successo, di critica e di pubblico. Risultato negativo per le altre uscite del weekend: “Succhiami” si ferma a quota 476.381€, “L’Incredibile storia di Winter il Delfino” a 431.370€, “Non avere paura del Buio” mette insieme 367.701€ mentre “Shame” solo 292.821€. Continua , invece, il successo della pellicola italiana “Immaturi- Il Viaggio”, ormai giunta a 9.320.447€ d’incasso.

Marco Fiorillo
Pier Lorenzo Pisano 

True Justice- Stato di Guerra (2011)

Steven Seagal: Elijah Kane
William Stewart: Andre Mason
Sarah Lind: Sarah
Meghan Ory: Juliet
Warren Christie: Radner

Regia: Wayne Rose, Keoni Waxman, Lauro Chartrand
Sceneggiatura: Steven Seagal
Fotografia: Nathan Wilson
Musiche: Carly Paradise
Scenografie: Andrew Deskin
Montaggio: Trevor Mirosh

Nella prima avventura, la SIU si trova a dare la caccia all’ennesimo stupratore. Nel mirino ci finiscono due sospettati: Crasso e Mc Sweeney, rispettivamente insegnate e preside d’una scuola privata. Crasso viene arrestato dopo i sei stupri ed il più recente omicidio, grazie al particolare impegno di Juliet (Meghan Ory), mentre Mc Sweeney viene arrestato a seguito del ritrovamento di materiale pedopornografico sul suo computer.
In un secondo momento, gli uomini di Kane (Steven Seagal), devono frapporsi al conflitto apertosi tra due membri della mafia russa, operante nel contrabbando di diamanti: Grygor e Borislav.
Parallelamente, Kane deve fare i conti con una minaccia rivolta direttamente alla sua persona, prima, e poi estesa anche ai suoi ragazzi. Sul Capo della SIU pesa ancora una taglia molto sostanziosa, maturata durante gli anni di militanza nell’esercito in territorio Medio Orientale.

Cambia la forma ma non la sostanza, in questo penultimo episodio. A Seagal e Co. basta sostituire gli uomini della Yakuza con due russi boriosi e lo stupratore delle maschere cinesi con il frustrato vendicativo, ed il gioco è fatto. Peccato che il risultato rimanga sempre lo stesso.
Va segnalata, nonostante il carattere re iterativo anche di questa segnalazione, l’interpretazione di Juliet/Ory durante il coinvolgimento diretto alle indagini di stupro. Una magra consolazione, considerato che i pochi sforzi del cast e dell’apparato tecnico continuino a trovare svogliatezza e poca qualità tra i soggettivisti.

Marco Fiorillo
Pier Lorenzo Pisano

La Chiave di Sara (2012)




La chiave di Sara
Titolo originale: Elle s'appelait Sarah
Francia: 2010. Regia di: Gilles Paquet-Brenner Genere: Drammatico Durata: 111'
Interpreti: Kristin Scott Thomas, Mélusine Mayance, Niels Arestrup, Frédéric Pierrot, Arben Bajraktaraj, Gisèle Casadesus, Michel Duchaussoy, Dominique Frot, Natasha Mashkevich, Aidan Quinn
Sito web ufficiale: www.sarahskey.com.au
Sito web italiano:
Nelle sale dal: 13/01/2012
Voto: 8
Trailer
Recensione di: Daria Castelfranchi
L'aggettivo ideale: Doloroso
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Sono molti i film che hanno raccontato l’Olocausto e il dramma della deportazione.
Ma per la prima volta, il regista francese Gilles Paquet-Brenner, ispirato dallo splendido best seller di Tatiana De Rosnay, porta in scena un fatto scioccante di cui pochi sono a conoscenza: il rastrellamento del Vel d’Hiv di Parigi.
Nel Luglio del 1942, migliaia di ebrei furono infatti prelevati dalla polizia francese e portati in un immenso velodromo, tenuti lì per giorni in condizioni disumane e infine smistati in diversi campi di transito situati nel nord della Francia.
Una pagina nera della storia francese, per la quale, nel 1992, l’allora Presidente Jacques Chirac, si scusò con un lungo discorso.

La protagonista di questo tragico evento è la piccola Sara: quando la polizia arriva a casa sua, nasconde il fratellino Michel in un armadio con una bottiglia di acqua, promettendogli che tornerà a prenderlo. Lei e i genitori vengono portati al Vel d’Hiv e successivamente separati.
Ma la piccola è caparbia e tornare a Parigi a liberare il fratellino è l’unica cosa che la tiene in vita. Un poliziotto impietosito la fa passare sotto il filo spinato: fugge e viene accolta da una coppia di mezza età che si prende cura di lei e riesce a portarla in città.

XXI secolo: Julia è una giornalista ed è in procinto di scrivere un lungo articolo sui fatti dell’estate 1942 quando si imbatte in Sara. Le ricerche la portano in un appartamento del Marais, lo stesso in cui viveva il suocero quando era bambino. Un terribile segreto inizia a venire a galla e quelle di Julia, da semplici ricerche per l’articolo, diventano un fatto personale. Vuole rintracciare la famiglia adottiva di Sara, Sara stessa. Il suo è una sorta di viaggio alla scoperta di sé tramite il passato di un’altra donna.

La chiave di Sara è di una bellezza straziante: toccante e dolorosamente vivo. Ricostruisce abilmente i giorni neri di tredicimila  ebrei deportati, la solitudine di una donna e di una bambina. L’incapacità di quest’ultima di accettare quanto ha sopportato, la capacità, al contrario, di Julia, di ribellarsi a chi le tarpa le ali.
Quello di Paquet-Brenner è un film intenso, che andrebbe visto anche solo per la splendida interpretazione di Kristin Scott Thomas la quale, tra l’altro, nella versione originale spazia dall’inglese al francese con grande naturalezza e con un’eccezionale padronanza della lingua d’oltralpe.

Di certo non un’opera distensiva ma un racconto per riflettere e per non dimenticare, che alla regia stilisticamente curata e alla splendida fotografia, unisce un intreccio coinvolgente, che commuove e tiene incollati allo schermo.
Poetica e al tempo stesso lancinante l’immagine delle due bambine che, dopo la fuga nei campi di grano, nuotano nel lago, lasciandosi cullare dall’acqua. Intensi i primi piani del volto tormentato di Sara ormai adulta.
Una storia di coraggio e amore, un film che ricostruisce un drammatico fatto storico pressoché sconosciuto, soprattutto alle nuove generazioni, ed una profonda e indiscutibile verità: “Siamo tutti il prodotto della nostra storia”.

Shame (2012)




Shame
Titolo originale: Shame
Gran Bretagna: 2010. Regia di: Steve McQueen Genere: Drammatico Durata: 99'
Interpreti: Michael Fassbender, Carey Mulligan, James Badge Dale, Nicole Beharie, Hannah Ware, Elizabeth Masucci, Lucy Walters, Robert Montano, Anna Rose Hopkins, Jake Richard Siciliano, Alexandra Vino, Jay Ferraro, Mackenzie Shivers, Alex Manette, Briana Marin, Frank Harts, Kate Dearing, Wenne Alton Davis, Eric Miller, Stephane Nicoli, Carl Low, Neal Hemphill, Mari-Ange Ramirez, Rachel Farrar
Sito web ufficiale: www.foxsearchlight.com/shame
Sito web italiano:
Nelle sale dal: 13/01/2012
Voto: 7
Trailer
Recensione di: Daria Castelfranchi
L'aggettivo ideale: Perverso
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Shame su Facebook

Presentato all’ultimo Festival del Cinema di Venezia, dove Michael Fassbender ha ottenuto la Coppa Volpi come Migliore Attore, arriva nelle sale italiane il controverso Shame.
Storia inquietante di solitudine ed incapacità di instaurare relazioni.
Storia di un uomo malato di sesso e di sua sorella, donna sola e fragile. Storia di un passato che non si conosce, lasciato alla libera interpretazione.

E’ un film strano quello di Steve McQueen, al suo secondo lungometraggio dopo Hunger, il cui protagonista era lo stesso Fassbender: un racconto torbido in cui le scene di sesso sono forse spinte all’eccesso ma che rende sapientemente e in maniera fortemente drammatica, l’inadeguatezza di un uomo in una città come New York, la sua solitudine, la sua insicurezza.
Un uomo la cui relazione più duratura non ha superato i quattro mesi, che in una stessa sera fa sesso con un gay e poi con due donne contemporaneamente. Assetato di piacere fisico: un piacere che evidentemente non lo soddisfa e che sconfina nel perverso.

Brandon è un manager di successo che vive un bell’appartamento a Manhattan e seduce donne in continuazione per soddisfare il suo insaziabile desiderio sessuale, l’unico in grado di distrarlo nel mondo inconsistente e ovattato che percepisce intorno a sé. La sua routine fatta di masturbazioni nel bagno dell’ufficio, sesso occasionale e sesso on line, viene stravolta dall’arrivo della giovane e instabile sorella Sissy, una cantante senza fissa dimora, spiantata, con un passato di cui si arguisce la bruttura nei numerosi tagli sulle braccia.

La sceneggiatura vuole sì rimarcare la tristezza della vita del protagonista ma risulta tutto sommato vacua e debole. L’interpretazione di Fassbender è encomiabile, non fosse altro che per il dramma interiore cui dà vita con un’eccellente performance e per le numerose scene di nudo che affronta con totale naturalezza.
Prigioniero in una cella nel film Hunger, per cui perse diverse chili, prigioniero del suo stesso corpo e delle sue pulsioni in Shame. Stride il contrasto tra le dolci note di musica classica che ascolta Brandon e il brano rock anni ’80 che imperversa in salotto all’arrivo di Sissy. Sofisticato lui, caotica lei.

Il film di McQueen lascia un po’ perplessi ma al tempo stesso è aperto all’interpretazione e per questo più difficile da digerire: Shame, la vergogna di sé, di ciò che si è diventati, del modo in cui si affronta, o meglio non si affronta la vita. La vergogna per il proprio egoismo ed egocentrismo e per non essersi resi conto di chi chiedeva aiuto. Certi film peccano perché eccessivamente didascalici, questo forse dice troppo poco. Mostra il mondo di Brandon ma non lo esamina a fondo e calca ripetutamente sul sesso, sui nudi a volte superflui dell’attore, sullo squallore di certi incontri.

Molto intenso Fassbender, brava anche Carey Mulligan – che canta una versione lenta di New York, New York con voce suadente e addolorata. Molto bella la fotografia – indovinata a questo proposito l’immagine del riflesso distorto di Brandon che rappresenta la sua visione distorta della realtà.
Particolare interessante: la ragazza sulla metro che suscita una serie di quesiti. Ma qui finiscono i pregi.
Tanto sesso per annientarsi, estraniarsi, annullarsi. Ma si era capito dopo venti minuti di film.

Non avere paura del buio (2012)

Katie Holmes: Kim
Guy Pearce: Alex
Bailee Madison: Sally
Allen Dale: Charles Jacoby
Jack Thompson: Harris

Regia: Troy Nixey
Soggetto: Nigel McKeand
Sceneggiatura: Guillermo del Toro, Matthew Robbins
Produzione: Guillermo del Toro, Mark Johnson
Fotografia: Oliver Stapleton
Musiche: Marco Beltrami, Buck Sanders
Scenografie: Roger Ford

Nella sua sontuosa dimora, il pittore Emerson Blackwood mette disperatamente insieme la macabra ricompensa per il riscatto del figlio di otto anni, rapito da strane creature che abitano la villa: l’artista uccide una domestica e ne asporta i denti. Molti anni dopo, la piccola Sally (Bailee Madison) lascia la madre a Los Angeles per raggiungere il padre Alex (Guy Pearce) nel Rhode Island. Alex si è da poco trasferito proprio nella tenuta Blackwood insieme alla nuova campagna Kim (Katie Holmes), con cui l’ha restaurata e preparata  alla vendita. L’arrivo di Sally risveglia, però, le creature abitanti della dimora.

La pellicola rispolvera l’omonimo film per la televisione diretto nel 1973 da John Newland, di cui riadatta gli schemi tecnici alla migliore sistemazione sul Grande Schermo e rimaneggia la storia a favore dei tempi che cambiano. Il risultato è un horror dalle venature popolar-religiose perfettamente mischiato ad una vicenda familiare. Sally/Madison si trova a fare i conti, prima che con una villa stregata, con due genitori lontani geograficamente e emotivamente: come un pacco da consegnare viene catapultata nel nuovo mondo del padre e della sua compagna Kim/Holmes, con cui stabilisce, almeno nelle prime battute,  un rapporto conflittuale, come testimoniato da alcune scelte registiche (vedi le sequenze in aeroporto e le battute riguardanti la spilla di Kim). Corre sugli stessi binari la vicenda orrorifica, che trova buona realizzazione nell’intreccio di leggenda, cultura popolare e sindromi psicologiche: tematiche “modaiole”, affrontate, però, con originalità, come dimostra l’inaspettato finale.
La sapiente conduzione registica, la voglia di indagare il mondo dell’infanzia nelle sue svariate sfaccettature ed il particolare richiamo alle opere di Arthur Machen, farebbero giustamente pensare alla firma di Guillermo del Toro a fine pellicola. Stupisce, e non poco, che il maestro messicano si sia interessato solo della sceneggiatura, insieme al collega Matthew Robbins, e della produzione, affiancando Mark Johnson. Un ambivalenza stilistico- tematica, questa, giustificata dalla scelta del direttore dei lavori: Troy Nixey, comic book artist posto da qualche tempo sotto l’alta protettiva di del Toro, che gli affida un progetto in cui ha, volente o nolente, infuso parte della proprio cultura cinematografica e del proprio animo. Ad un’analisi più accurata, ciò che allontana Nixey dal suo mentore è la maggiore attenzione dimostrata per la resa sensoriale, esulando da quella interiorizzazione del male che tanto impreziosisce le opere di del Toro.

Dietro le telecamere, il talento della coppia protagonista, Nixey- del Toro appunto, si affianca la più che mai adatta direzione fotografica del britannico Oliver Stapleton e il commento musicale di Marco Beltrami, l’allievo di Jerry Goldsmith singolo rappresentante italiano nell’Olimpo hollywoodiano.
Davanti le telecamere, una giovane conferma assai gradita e due ritorni altrettanti piacevoli. Ai beniamini Katie Holmes e Guy Perce si aggiunge, infatti, la piccola Bailee Madison: apparsa per la prima in “Un Ponte per Terabithia”, Bailee diede sfoggio di tutto il suo talento in “Brothers”, con un’interpretazione forte ed emozionante. L’età ed i già numerosi premi vinti fanno sperare in una carriera più che rosea.

VOTO 7/10
Marco Fiorillo
Pier Lorenzo Pisano 

L’incredibile storia di Winter il Delfino (2012)

Morgan Freeman: dott. Cameron McCarthy
Ashley Judd: Lorraine Nelson
Kris Kristofferson: Reed Haskett
Harry Connick Jr.: dott. Clay Haskett
Nathan Gamble: Sawyer Nelson
Cozi Zuehlsdorff: Hazel Haskett
Frances Stern Hagen: Gloria Forrest
Austin Stowell: Kyle

Regia: Charles Martin Smith
Sceneggiatura: Karen Jansze, Noam Dromi
Fotografia: Karl Walter Lindenlaub
Musiche: Mark Isham

Persi i contatti col padre, Sawyer (Nathan Gamble), vede allontanarsi anche l’affezionato cugino Kyle (Austin Stowell), in partenza per l’Iraq. La noia d’un’estate trascorsa tra i banchi di scuola viene stravolta dal ritrovamento di un esemplare di delfino, arenatosi in spiaggia e immediatamente trasportato all’Ospedale Marino di Clearwater, dove riceve le prime cure del dott. Clay (Harry Connick Jr.) e di sua figlia Hazel (Cori Zuehlsdorff). Col passare del tempo, Sawyer, pienamente accolto nello staff dell’ospedale, stringe un saldo rapporto col cetaceo, Winter, che intanto ha dovuto subire l’amputazione della coda e la conseguente malformazione del midollo spinale. Intanto una tempesta si abbatte sulle coste della Florida, rovinando parte delle attrezzature della struttura, già prossima alla chiusura, e Kyle viene coinvolto in un’esplosione, riportando la perdita dell’utilizzo della gamba destra. L’incidente permette a Sawyer di fare la conoscenza dello strambo dott. McCarthy (Morgan Freeman), a cui il piccolo chiederà la costruzione d’una protesi che possa sostituire la coda di Winter. Quando la chiusura dell’ospedale è ormai prossima, il miracolo scatenato dal delfino consumerà il suo ultimo atto.

La pellicola si ispira alla storia vera di Winter, una femmina di delfino salvata nel Dicembre del 2005 in Florida. L’animale era stata trasportata dalle onde fino alla spiaggia dopo essersi impigliata in una trappola per granchi; le lesioni riportate le fecero perdere l’uso della coda, sostituita da una particolare protesi, successivamente usata anche in interventi sugli umani. Tutt’oggi, Winter vive felice al Clearwater Marine Aquarium.
Si fa testimone di questa incredibile vicenda il regista statunitense Charles Martin Smith, sottoponendola ad un ampio rimaneggiamento cinematografico che non ne viola l’anima. Il risultato è una storia d’amicizia, quell’amicizia pura e disinteressata che solo un bambino può e sa concedere. È il ritorno ad un  tipo di cinema che da un po’ mancava all’appello, di quello tra il fanciullesco e l’impegnato che riunisce la famiglia intera sul divano la domenica pomeriggio. Il tutto indirizzato alla narrazione del profondo rispetto per tutti coloro che ogni giorno devono fare i conti con una disabilità, siano essi animali feriti dall’uomo, soldati di ritorno dal fronte o bambini che con la propria “diversità” ci convivono dalla nascita. “E’ questo il vero messaggio, non rinunciare alla speranza”: non potevano essere più giuste le parole del piccolo Gamble.
Quando le premesse sono di questo genere, evidenziare errori di conduzione registica o recitative sembra superfluo. Ci limiteremo a condannare gli evidenti e numerosi cliché di genere e l’uso, del tutto inutile, del 3D.
Al suo ritorno dietro le telecamere, Charles Martin mette in insieme un cast che bilancia ebne interpreti consumati e volti nuovi. Domina lo schermo il giovanissimo Nathan Gamble: dopo le prime apparizioni in “Babel” e “Il Cavaliere Oscuro”, arriva la definitiva affermazione nell’horror disneyano “The Hole”. Al suo fianco, un’altra giovanissima, Cozi Zuehlsdorff, i rodati Harry Connick Jr, anch’egli di ritorno sui set dopo una lunga assenza, e Ashley Judd, e il patrocinato di Kris Kristofferson e del senatore hollywoodiano Morgan Freeman.

VOTO 6/10
Marco Fiorillo
Pier Lorenzo Pisano 

La Talpa (2012)

Gary Oldman: George Smiley
Colin Firth: Bill Haydon
Tom Hardy: Ricki Tarr
Mark Strong: Jim Prideaux
Ciaràn Hinds: Roy Bland
Benedict Cumberbatch: Peter Guillam
Toby Jones: Percy Alleline
John Hurt: Control
David Dencik: Toby Esterhase

Regia: Tomas Alfredson
Soggetto: John le Carrè
Sceneggiatura: Bridget O’Connor, Peter Straughan
Fotografia: Hoyte van Hoytema
Musiche: Alberto Iglesias
Scenografie: Maria Djurkovic

Londra, 1973. L’agente Prideaux (Mark Strong), inviato a Budapest dal capo del Circus Control (John Hurt), rimane ucciso durante l’operazione. Un anno dopo il vertice del Circus è cambiato: Control e Smiley (Gary Oldman) sono stati dimessi insieme a molti altri colleghi, in favore della nuova conduzione di Alleline (Toby Jones), affiancato da Haydon (Colin Firth), Bland (Ciaràn Hinds), ed Esterhase (David Dencik). Il nuovo organico dell’agenzia governativa deve però fare i conti con la minaccia d’una spia all’intero dell’organizzazione, la cui presenza potrebbe minare le attività della neo “Compagnia delle Streghe” di Alleline e Co., alle prese con una “collaborazione” con russi e statunitensi. Sulle tracce della presunta spia si mette proprio Smiley, in tandem con Peter Guillam (Benedict Cumberbatch). I sospettosi movimenti che si registrano presso l’abitazione del russo Polyakov, il rientro in Britannia dell’agente Ricki Tarr (Tom Hardy) e le nuove riguardanti la morte di Prideaux renderanno le acque più torbide per Smiley.

“Tinker, Taylor, Soldier, Spy” ,questo il titolo originale della pellicola, è tratta dall’omonimo romanzo dell’inglese John le Carrè. Professore al prestigioso Eaton College, funzionario del Foreign Office, consigliere politico ed agente del Secret Intelligence Service, le Carrè ha trovato anche il tempo di redigere una vasta collezione di romanzi di spionaggio, di cui “La Talpa”occupa il filone più recente, responsabile della sua definitiva consacrazione a scrittore. Si tratta della serie “ispirata” proprio alla sua militanza nei servizi segreti britannici, interrotta da Kim Philby, doppiogiochista del KGB che fece saltare le coperture di moltissimi agenti.
A raccogliere l’eredità cartacea di John le Carrè per farne celluloide di  estrema qualità, il regista svedese Tomas Alfredson. Il risultato è una storia raccontata con impeccabile bravura e vividezza, sia alle spalle dell’obiettivo che sul set. Il regista sceglie una linea estremamente pulita ma non priva di talentuosissimi tecnicismi: alcune scelte, come la lunga sequenza iniziale tutta musica e immagini e le svariate soggettive irreali, hanno solamente impreziosito una direzione già ottima. Ciò che costituisce il valore aggiunto è l’implicito romanticismo che fa da sfondo alla vicenda: i lunghi silenzi di Smiley/Oldman, la scelta di non inquadrare mai il volto della sua perduta compagna, la disperazione negli occhi di Prideaux/Strong.  Il tutto, riportando con leggerezza e fedeltà il composto  e taciturno stile britannico: non è un caso che ogni membro del cast sia di origini britanniche, eccetto lo svedese David Dencik.
La sottile sceneggiatura di Bridget O’Connor, cui Alfredson dedica la pellicola, la fotografia d’autore di Von Hoytema e le musiche del compositore spagnolo Alberto Iglesias ribadiscono solamente l’elevato standard qualitativo del girato.

Discorso a parte lo merita il ricchissimo cast che da solo potrebbe far inneggiare al capolavoro. Su tutti il talento sempreverde di Gary Oldman che con poche parole e molta recitazioni riesce ad emozionare come pochi. Al suo fianco, attori rodati come Colin Firth e Mark Strong, i giovani volti di Tom Hardy, che cavalca nel migliore dei modi il successo riscosso con l’interpretazione in “The Warrior”, e Benedict Cumberbath, noto ai più nelle vesti di Sherlock Holmes nell’ultima versione seriale, e un padrino d’eccezione come John Hurt. Probabilmente, si tratta del gruppo di caratteristi più ricercati del Cinema moderno.

“Tomas è uno specialista dell’arte cinematografica, quella di poche parole. Qualcuno dice qualcosa e qualcun altro muove la mano o il piede. È lo sguardo tra due persone al posto di pagine di dialoghi. Quella è l’eloquenza di cui abbiamo bisogno”. Alle parole di Colin Firth va aggiunto solo che siamo di sicuro dinanzi ad uno dei film protagonisti dell’assegnazione dei prossimi Oscar.

VOTO 8/10
Marco Fiorillo
Pier Lorenzo Pisano 

La Tempesta Perfetta (2000)

George Clooney: Billy Tyne
Mark Wahlberg: Bobby Shatford
Diane Lane: Christina Cotter
Karen Allen: Melissa Brown
John C. Reilly: Dale “Murph” Murphy
William Fichtner: David “Sully” Sullivan
M.E. Mastrantonio: Linda Greenlaw

Regia: Wolfgang Peterson
Sceneggiatura: William P. Wittliff
Fotografia: John Seale
Effetti Speciali: Industrial Light&Magic




Il gruppo di pescatori capitanati da Billy Tyne (George Clooney), a bordo dell’Andrea Gail, parte da Gloucester, in Massachusetts, alla volta del Flemish Cap, sito famoso per la ricca presenza di branchi di pesci spada. L’imbarcazione, già in alto mare, va incontro all’uragano Grace, in collisione con altre due aree di bassa pressione, una proveniente da Nord ed una proveniente da Sud. Ciò che affronteranno gli uomini di Tyne è la cosiddetta “Tempesta Perfetta”.

Ispirandosi ad avvenimenti realmente accaduti, il regista e sceneggiatore d’origine tedesca Wolfgang Peterson realizza una pellicola piacevole, sia per contenuti che per veste grafica. Le alchimie tra i marinai, che siano amici di vecchia data come Tyne/Clonney, Murph/Reilly e Bobby/Wahlberg, o nuovi inserti come l’attaccabrighe Sully/Fichtner, sono tratteggiate con estremo realismo, frutto anche d’una buona prova di tutto il cast. Inoltre, Peterson si affida alle tecnologie ed alle conoscenze della Industrial Light&Magic, lo storico studio d’effetti speciale creato da George Lucas, che realizza per l’occasione uno spettacolo grafico che ha dell’incredibile per l’anno di produzione della pellicola.

Senza eccessi tecnici, sia davanti che dietro le telecamere, il risultato è una pellicola comunque gradevole che non aspira all’eccellenza ma si ritaglia un posto nel grande albo della cinematografia statunitense.

VOTO 6/10
Marco Fiorillo
Pier Lorenzo Pisano