traduzione

venerdì 24 giugno 2011

Libera uscita (film 2011)


Regia: Peter e Bobby Farrelly
Owen Wilson: Rick
Jason Sudeikis: Fred
Jenna Fischer: Maggie
Christina Applegate: Grace
Nicky Whelan: Leigh
Richard Jenkins: Coakley
Stephen Merchant: Gary
J.B. Smoove: Flats
Larry Joe Campbell: Hog-Head

Rick (Owen Wilson) sta sperimentando i limiti del matrimonio, il peso di dover accudire i figli, la noia del rapporto di coppia, la routine di tutti i giorni che non gli lascia tempo per l’intimità e per se stesso.

Insieme al suo amico Fred(Jason Sudeikis), anche lui ammogliato, fanno volare la mente pensando a quanto sarebbe bello poter vivere ancora una volta come quando erano single.
Per una serie di comiche circostanze sarà offerta loro la possibilità di vivere una settimana da single, senza implicazioni morali e pratiche sul loro rapporto con le mogli.

Il film basa la sua comicità su ritmi ben scanditi, sulla mimica facciale di Owen Wilson (circondato da un gruppo di amici scopiazzato da “Una notte da leoni” ma non altrettanto ben definito ed amalgamato), su situazioni e stati d’animo universalmente condivisibili e battute e comicità tipicamente americane.

È molto interessante vedere Owen Wilson recitare un ruolo molto diverso dal solito, il buon padre di famiglia, casa e lavoro, leggermente frustrato, impacciato ed “arrugginito” col gentil sesso. In effetti sia lui che gli altri personaggi sembrano passare da uno stereotipo all’altro, anzi rappresentano precisamente la gamma di tutti gli stereotipi riguardanti il matrimonio e la crisi di mezz’età.

Il film regala una scena estremamente divertente: l’ultimissima, che mi sento di segnalare. Ma a parte qualche battuta riuscita rimane un prodotto superficiale, abbastanza godibile, ha il pregio di non esagerare e di mantenersi abbastanza credibile(per tre quarti del film), insomma da guardare a cuor leggero e senza accampare pretese.

Una riflessione amara: questo film, una commediola americana, con un nome famoso, qualche sketch divertente, che presenta valori ottusi e materialisti e che è prevedibile all’inverosimile(a seconda di quanto sia abituato il palato del fruitore), è il futuro del cinema, che si prospetta difficile, tra blockbuster e film sempre più poveri di contenuti.
Voto: 4/10
Pier Lorenzo Pisano
Marco Fiorillo

L’ultimo dei templari (2011)


Nicolas Cage: Behman
Ron Perlman: Felson
Stephen Graham: Hagamar
Ulrich Thomsen: Eckhardt
Robert Sheehan: Kay
Stephen Campbell Moore: Debelzaq
Claire Foy: Anna
Christopher Lee: Cardinale d’Ambroise
Matt Devere: Sergente
Regia: Dominic Sena
Sceneggiatura: Bragi F. Schut
Fotografia: Amir M. Mokri
Montaggio: Dan Zimmerman
Musiche: Atli Orvarsson
Scenografie: Naomi Shohan

Diverso dall’originale “Season of the Witch”, il titolo orginale recupera precedenti fatiche di Nicolas Cage, ma se ne distacca per dare vita ad un’avventura fantasy tutta nuova, che prosegue, però, un ulteriore filone: quello delle cattive scelte dell’attore.
In una Edremit del tempo delle Crociate, due cavalieri templari, Behman (Nicolas Cage) e il fidato compagno Felson (Ron Perlman), spargono sangue impugnando nella destra la spada e nella sinistra il crocifisso cristiano. Quando le loro battaglie portano la morte tra donne e bambini, Behman, più di Felson, sente il bisogno di allontanarsi da quella devastazione, rinnegando, se non la fede, la fedeltà alla Chiesa. Braccati come disertori, per evitare ulteriori ripercussioni i due sono costretti dal morente Cardinale d’Ambroise (Christophr Lee) ad accompagnare la giovane Anna (Claire Foy) presso il monastero di Severac, dov’è conservata l’ultima copia della Chiave di Salomone, volume attribuito al sovrano avente le capacità di annientare le manifestazioni del maligno. La donna è stata accusata di stregoneria e indicata come la responsabile dell’epidemia di peste che ormai miete vittime da tre stagioni. I due cavalieri si uniscono a Hagamar (Stephen Graham), Eckhardt (Ulrich Thomsen) e a Kay (Robert Sheehan) nel periglioso viaggio, durante il quale Behman sarà chiamato a valutare la vera natura del male che sta affrontando.
Si rincontrano le strade del regista Dominic Sena e dell’attore Nicolas Cage, in una produzione che, esulando da conclusioni umoristiche circa le ultime vicende dell’attore, lascia a desiderare, e non poco. Sena ha intrapreso la sua avventura nel mondo della celluloide con “Kalifornia”. La pellicola non venne accolta positivamente dal pubblico e Sena fu costretto ad aspettare sette anni prima di rivedere una propria opera realizzata. Quell’opera fu “Fuori in 60 secondi”, che vide come protagonista proprio il templare Nicolas Cage. L’attore, da par sua, sembra aver imboccato il viale della “discesa” nel 2007, in cui lo vedemmo cavalcare l’infernale moto del Ghost Ryder.
“L’ultimo dei Templari” porta sulla scena una critica dal sapore religioso che sa di stantio, immessa in una cornice grafica che richiama troppo fedelmente le più fortunate “Crociate” di Ridley Scott. Il già flebile intreccio narrativo, dal finale fin troppo scontato, viene peggiorato da alcune trovate che fanno veramente discutere: il pentimento repentino e, per questo, ridicolo di Behman/Cage da sanguinario cavaliere a pacifico viandante è paragonabile solo alla scena in cui lo vediamo fermare delle frecce con la spada; per non parlare dell’utilizzo di maschere rese celebri da un film, che anche pensare di paragonare a “L’ultimo dei Templari” corrisponde ad un’eresia: stiamo parlare di “Eyes Wide Shut” del maestro Stanley Kubrick.
Al di là della giovane Claire Foy, che caratterizza in maniera sufficiente un personaggio facilmente banalizzabile, sono poche le parole d’elogio per il resto del cast. Il nerboruto Ron “Hellboy” Perlman, ha smarrito la brillantezza ed il talento de “Il nome della rosa”, come il fedele compagno di scena, Cage appunto, che al film presta solo il suo nome. Il tutto, discutibilmente patrocinato dalla presenza dell’infinito Christopher Lee, alla sua 280esima presenza sul set.
Nonostante le generali considerazioni negative, il film ha avuto una buona accoglienza da parte del pubblico, conquistando il primato al botteghino, nel primo weekend, e 87 milioni di dollari complessivi. La forza mediatica del progetto si rispecchia anche nella campagna promozionale italiana: per le strade della capitale, il 14 Giugno, ha circolato, tra gli sguardi incuriositi dei passanti, un lugubre carro contenente una spaurita donna e scortato da due cavalieri templari.
Tempo sprecato e senso di vuoto: sono queste, purtroppo, le sensazioni che accompagnano la visione della pellicola. La speranza di rivedere il vero Nick Coppola non è ancora morta.
VOTO 4/10
Marco Fiorillo
Pier Lorenzo Pisano

X- men L’inizio (2011)


James Mc Avoy: Charles Xavier/ Professor X
Michael Fassbender: Erik Lehnsherr/ Magneto
Rose Byrne: Moira Mc Taggert
Jennifer Lawrence: Raven Darkholme/Mystica
January Jones: Emma Frost
Kevin Bacon: Sebastian Shaw
Nicholas Hoult: Hank Mc Coy/ Bestia
Jason Fleming: Azazel
Lucas Till: Alex Summers/ Havok
Edi Gathegi: Armando Munoz/ Darwin
Caleb Landry Jones: Sean Cassidy/ Banshee
Zoe Kravitz: Angel Salvadore
Don Creech: Agente Stryker
Oliver Platt: “Uomo in nero”
Rade Serbedzija: Gen. Russo
Ray Wise: Serg. Statunitense
Glenn Morshower: Col. Hendry
Michael Ironside: Cap. Statunitense
Hugh Jackman: James Logan Howlett/ Wolverine (cameo)
Rebecca Romisn: Mystica (cameo)
Regia: Matthew Vaughn
Soggetto: Bryan Singer, Sheldon Turner
Sceneggiatura: Ashley Miller, Zack Stentz, Jane Goldman, Matthew Vaughn
Fotografia: John Mathienson
Musiche: Henry Jackman

I Marvel Studios continuano a cavalcare l’onda del successo “eroico” che stanno riscuotendo, in un momento in cui gli eroi sembrano indispensabili e introvabili. Si aggiunge un capitolo ma non si arricchisce il panorama fin’ora costruito: si tratta, infatti, di un nostalgico tuffo nelle origini della comunità mutante.
Un giovanissimo Erik Lehnsherr (Michael Fassbender) , prigioniero di un campo di concentramento in piena Seconda Guerra Mondiale, fa esplodere la rabbia del suo potenziale mutante, quando Sebastian Shaw (Kevin Bacon), ancora nei panni di rappresentante del Reich, uccide la madre davanti ai suoi occhi. Un altrettanto giovane ma benestante Charles Xavier (James Mc Avoy) accoglie in casa una bambina “speciale” come lui: si tratta della muta- forma Raven (Jennifer Lawrence).Ritroviamo i bambini, Erik e Charles, cresciuti. Il primo ha covato per anni odio e rancore, ponendosi come unico obiettivo la vendetta. Il secondo si è trasferito in Inghilterra, dove ha conseguito brillantemente gli studi universitari ad Oxford. Proprio la tesi discussa in sede di laurea spinge l’agente della CIA Moira Mc Taggert (Rose Byrne) a cercarlo: la donna stava seguendo i movimenti del generale Hendry, fin quando quest’ultimo non si è introdotto nel Club Infernale, scomparendo “misteriosamente” insieme ad un insolito figuro, il tele- porta Azazel (Jason Fleming), davanti agli occhi di una donna dalla pelle di diamante, Emma Frost (January Jones),e di Sebastian Shaw, giovane come al cospetto del piccolo Erik. Per Moira credere ai propri occhi è impossibile e cerca delle risposte, rivolgendosi al neo professor Xavier, impaziente d’informare il Mondo delle capacità sue e di Raven, divenuta ormai una sorella. Le due strade che portano a Shaw, la vendetta di Erik e la collaborazione di Charles con la CIA, si uniranno per legare i due in una solida amicizia. Il percorso che seguiranno insieme, culminante nella nascita di una Scuola che accolga i mutanti, è diretta verso una nuova separazione, i cui esiti sono, ormai, storia.
Considerando il mal riuscito spin-off dedicato all’amatissimo Wolverine, siamo al quarto capitolo dell’epopea mutante. Dopo le due riuscite direzioni di Bryan Singer e la breve parentesi, piuttosto marginale nell’apporto contenutistico e nella qualità, di Brett Ratner, prende le redini del progetto Matthew Vaughn. Forte della costante presenza di Singer nelle nuove vesti di produttore, Vaughn fa mostra di talento e gusto, ridando respiro e grazia ad una serie che cominciava a sentire il passare degli anni. Gli strumenti del nuovo regista sono la “modaiola” ambientazione retrò, che permette,probabilmente più delle stesse scelte narrative, la vera immersione in un momento posteriore agli eventi narrati fin’ora, e l’ accurata caratterizzazione dei personaggi. Nonostante le contaminazione cinematografiche e fumettistiche, Vaughn riesce ad infondere viva linfa giovanile a figure storicamente “stabilite”, senza mai scadere nel banale o nell’eccesso. In questo caso, il merito va equamente condiviso con il cast, giovane e valente. Ottima la prova di Mc Avoy nei panni di un Charles sicuro e carismatico, così come non dispiacciono i vari Hoult/Bestia, Lawrence/Mystica, Till/Havok, Jones/Banshee Kravitz/Angel, interpreti di una mutazione giovane e fresca ben articolata tra scoperta infantile e accettazione “adolescenziale” della propria diversità. Meno brillanti le prove della guest star Kevin Bacon, cattivo per eccellenza ma poco cattivo in questo caso, e di Rose Byrne, contro le quali spicca il talento controllato di Michael Fassbender, capace di mantenere l’unità narrativa del girato, implicitamente incentrata sul suo personaggio. Giungono graditi i camei di Hugh Jackman, volto di Wolverine mutante artigliato dalla grandissima fama, e di Rebecca Romisn, interprete di Mystica nei film precedenti.
Note dolenti, l’eccessiva durata e, in particolare, le evidenti incongruenze continuative con gli episodi passati. Tra le più palesi, le varie trasformazioni di Bestia, i molteplici aspetti del Professor X e la “rinascita” di Sebastian Shaw nel secondo episodio della saga.
Se non si laurea a pieni voti, di certo, “X-Men L’inizio”, porta una ventata di curiosità e qualità che non dispiace affatto, cui si unisce una vena di nostalgico romanticismo che commercialmente funziona sempre molto bene.
VOTO 6/10
Marco Fiorillo
Pier Lorenzo Pisano

La leggenda di Bagger Vance (2000)


Ciclo "Per non dimenticare": Swing e Cinepresa

Regia:Robert Redford
Soggetto:Steven Pressfield (romanzo)
Sceneggiatura:Jeremy Leven
Fotografia:Michael Ballhaus
Montaggio:Hank Corwin
Musiche:Rachel Portman
Scenografia:Stuart Craig
Will Smith: Bagger Vance
Matt Damon: Rannulph Junah
Charlize Theron: Adele Invergordon
Bruce McGill: Walter Hagen
Joel Gretsch: Bobby Jones
J. Michael Moncrief: Hardy Greaves
Lane Smith: Grantland Rice
Jack Lemmon: Voce narrante / Hardy da anziano

Come ogni leggenda, c’è sempre un fondo di verità, che in questo caso è il romanzo “The Legend of Bagger Vance” di Steven Pressfield.
Sesto film diretto da Robert Redford, estremamente sensoriale e poetico, presenta una visione quasi epica del campo da golf, specchio della nostra anima, delle stagioni, della dura bellezza della vita.

Rannulph Junuh(Matt Damon) è un giovanissimo fenomeno del golf, ha una vita invidiabile: bello, bravo, ha l’amore della bellissima ereditiera Adele Invergordon (Charlize Theron). Chiamato alle armi per difendere la patria, ritorna carico di medaglie e di incancellabili fantasmi che continuano a perseguitarlo e gli fanno smarrire il senso della sua vita ed il suo stesso swing, il fluido movimento oscillatorio col quale i golfisti colpiscono la palla.
Quando un grandioso torneo di golf è organizzato nella sua città natale, è richiesta la sua partecipazione, ma prima deve riuscire ad affrontare il suo passato e recuperare così il suo swing. Allora arriva in suo aiuto il misterioso caddy Bagger Vance…

Redford è maestro nel ricreare gli ambienti, i costumi e le espressioni dell’America degli anni ‘30, ed esamina anche le tematiche sociali, l’effetto della guerra e della Depressione sul popolo americano.
Il golf assume un ruolo metafisico, è (forse eccessivamente) carico di significati e sembra che ogni metro percorso camminando su di un campo da golf debba dispensare lezioni di vita; profeta del golf è Bagger Vance, figura evanescente e a tratti soprannaturale, vero conoscitore del “gioco”, termine riduttivo per i termini nei quali se ne parla nel film.
Numerose sono le inquadrature degne di nota, belle le panoramiche sul campo, bravi gli interpreti (anche se Matt Damon riesce a stento ad essere un cattivo ragazzo per cinque minuti di pellicola), la colonna sonora è notevole, tuttavia due pesi gravano sul film: la figura centrale stessa del film, Bagger Vance, ed un diffuso moralismo che è onnipresente nel film.

Il film ha subito molte critiche per la figura del “magical negro”, un vecchio stereotipo cinematografico ripescato per l’occasione, lo “schiavo felice” che aiuta il padrone bianco. Tuttavia se si soprassiede su quest’elemento, si può lasciar emergere la ricchezza delle sotto-trame: il bambino narratore, la storia d’amore di Rannulph ed Adele, il rapporto tra i tre golfisti Walter Hagen, Bobby Jones e Rannulph.

I tre campioni sono molto diversi tra loro: ognuno da il proprio significato alla vita, e manifesta ciò nel suo gioco sul campo, Walter è disilluso, cinico e donnaiolo e dopo il torneo giocherà solo partite dimostrative; Bobby è un genio, un uomo fuori dal comune, padre di famiglia, pienamente realizzato, in armonia con se stesso; Rannulph ha perso se stesso, e più si riconcilia con se stesso, più il suo gioco migliora.

Il film presenta inoltre una struttura molto schematica e precisa, al livello di storia e di corrispondenze e legami tra i personaggi, forse ricavata dal romanzo.
Un film che merita sicuramente di essere visto, bello esteticamente, tenta di esserlo anche internamente, diventando leggermente moralista.
Voto: 7/10
Pier Lorenzo Pisano
Marco Fiorillo

Una notte da leoni 2 (2011)


Bradley Cooper: Phil Wenneck
Zack Galifianakis: Alan Garner
Ed Helms: Stu Price
Jeffrey Tambor: Sid Garner
Sasha Barrese: Tracy
Justin Bartha: Doug Billings
Ken Jeong: Mr. Leslie Chao
Paul Giamatti: Kingsley
Jamie Chung: Lauren
Mason Lee: Teddy
Bryan Callen: Samir
Mike Tyson: Mike Tyson
Nick Cassavates: tatuatore
Regia: Todd Philips
Sceneggiatura: Todd Philips, Scott Armstrong, Craig Mazin
Fotografia: Lawrence Sher
Musiche: Christophe Beck
Scenografie: Bill Brzeski

I Leoni sono tornati! Basterebbe citare la frase che da avvio al trailer della pellicola per accendere i fan del branco che ci ha portato a Las Vegas qualche tempo fa e che ritorna, adesso, per farci rivivere un’altra goliardica avventura al limite della lucidità.
Dopo due anni da quella matta notte a Las Vegas, in cui Phil (Bradley Cooper), Stu (Ed Helms) e Alan (Zack Galifianakis) stavano per far saltare le nozze dell’amico Doug (Justin Bartha) durante l’addio al celibato, sembra che il “branco” non abbia imparato la lezione. Questa volta, le nozze sono quelle di Stu con Lauren (Jamie Chung) organizzate in Thailandia: il prossimo sposo non manca di invitare i tre amici ma non ha alcuna intenzione di tenere una festa di addio al celibato, intento ancora a rimettere insieme i ricordi della nottata a Las Vegas. Così, a due giorni dall’evento, gli amici, cui si aggiunge Teddy (Mason Lee) il fratello minore della sposa e fiore all’occhiello della famiglia, decidono di limitare i festeggiamenti ad un falò in spiaggia, trascorrendo la serata a bere birra e arrostire marshmallow. Scoprire come, la mattina seguente, Stu, Phil, Alan e Teddy si ritrovino in un losco motel di Bangkok, lo lasciamo a voi : gli indizi sono un dito mozzato, un tatuaggio in stile Mike Tyson e una scimmietta.
Non è mai facile bissare il successo di un’opera prima, con un sequel azzeccato. Probabilmente, risulta ancora più difficile quando il compito è quello di far ridere senza scadere nella ripetitività. Ci riesce perfettamente, invece, Todd Philips, regista di “Una notte da leoni”, una delle commedie meglio riuscite degli ultimi anni. Nel continuare la narrazione del folle gruppo che aveva gozzovigliato a Las Vegas, Philips realizza una pellicola che non perde di curiosità e brillantezza, basando la comicità sull’eccesso della storia stessa, che si condisce di una location ancora più “brava” della capitale del Nevada, e di eventi al limite del reale, oltre che sulla perfetta alchimia dei tre protagonisti, capaci di far ridere solo se messi insieme sullo stesso set. Il risultato è un’opera bilanciata che non scade mai nella noia e nelle esagerazioni, che trova una giusta misura ironica tra il recupero della prima avventura (nel format) e peripezie tutte nuove, giocando anche sull’ implicita partecipazione del pubblico, immerso nella ricostruzione della vicenda insieme agli attori stessi. Non arriva, quindi, inaspettata la calorosissima accoglienza ricevuta dal pubblico: in un solo weekend americano il film incassa 86 milioni di dollari, superando di 6 milioni il costo totale della produzione.
L’onda del successo del secondo film ha ancora la cresta alta ma già corrono voci di un terzo episodio. Intervistato, il regista Philips ammette: “L’abbiamo sempre pensato come una trilogia. Il terzo sarebbe il finale della storia. In più potrei dire, ma non ne ho ancora parlato con gli attori, che non seguirebbe il modello dei film precedenti ma nascerebbe da una nuova idea.” Sembra ,invece, smentirlo Zack Galifianakis, acclamato beniamino del pubblico: l’attore ha rivelato che il terzo capitolo dovrebbe incentrasi su una storia dedicata al suo personaggio, impegnato in una rocambolesca fuga da un ospedale psichiatrico, aiutato ed affiancato dai soliti tre compagni. Non ci resta che aspettare.
“E’ una commedia epica!” Così definisce il regista la pellicola: dargli torto sarebbe ingiusto.
VOTO 7/10
Marco Fiorillo
Pier Lorenzo Pisano

Esp- Fenomeni Paranormali (2011)

Sean Rogerson: Lance Preston

Juan Riedinger: Matt White

Ashleigh Gryzko: Sasha Parker

Mackenzie Gray: Houston Gray

Arthur Corber: Dr. Friedkin

Michele Cummins: Ghost

Ben Wilkinson: Jerry Hartfield

Regia: The Vicious Brothers

Sceneggiatura: The Vicious Brothers

Fotografia: Tony Mirza

Effetti Speciali: Colin Minihan

Musiche: Quynne Craddock

Scenografie: Paul Mc Culloch


Un altro ospedale psichiatrico. Un altro gruppo di giovani curiosi armati di telecamere. Porte che sbattono a loro piacimento, cigolii da brivido e fantasmi triti e ritriti. Servirebbe una resa registica almeno al livello delle pellicole che hanno lanciato la moda del “film nel film”, ma quella è l’unica cosa che in “ESP” non sembra già vista!

Il giovane Lance Preston (Sean Rogerson) è l’ideatore ed il realizzatore di ESP- Fenomeni Paranormali, una serie televisiva tutta dedicata alle suggestioni paranormali, in cui vero e finzione cinematografica si fondono coi semplici fini dell’intrattenimento e del guadagno. Per la sesta puntata, Lance e la sua troupe si recano presso il Collingwood Psychiatric Hospital, un ospedale psichiatrico del Maryland tristemente noto per i maltrattamenti subiti dai pazienti ricoverati nella struttura. Dalla chiusura, i padiglioni del complesso sembrano fare da scena a fenomeni di inspiegabile natura che hanno amplificato ancor di più l’aura di mistero e brivido. Lance non vuole lasciarsi sfuggire una location perfetta per il suo format. Svolto il solito rito delle “interviste pilotate”, il gruppo decide di farsi rinchiudere per una notte nella struttura, per verificare e riportare gli strani eventi che si consumano tra le mura dell’ospedale. Dopo essere stati raggiunti da Houston Gray (Mackenzie Gray), un falso medium integrato nel cast a rappresentanza dell’autorità competente, Lance e compagni vengono chiusi nell’edificio dal custode, Jerry (Ben Wilkinson), che alle 6.00 ritornerà a liberarli. La registrazione della puntata sembra risolversi nella routine cui il gruppo si è ormai abituato, quando strani fenomeni cominciano a manifestarsi intorno a loro: ciò che fin’ora era stata una finzione diviene realtà e quando i ragazzi, spaventati, decidono di uscire dall’ospedale, nello sfondare l’ingresso chiuso dal custode, non trovano l’esterno ma la continuazione dell’edificio stesso. Sono bloccati in un sogno onirico fuori dal tempo e dallo spazio. Ma il peggio deve ancora venire.

Fanno il loro “debutto in società” i Vicious Brothers, alias Colin Minihan e Stuart Ortiz, che puntano sulla moda horror del momento: quel “Found Footage Movie” che da “The Blair Witch Project”, passando per la fortunatissima serie dei “Paranormal Activity” arriva a “Rec”, valida interpretazione spagnola del genere. Di certo apportare un contributo innovativo e tecnicamente valido non è facilissimo ma almeno rimanere nei range qualitativi dei precedenti sarebbe quantomeno auspicabile. Non arriva alla sufficienza, invece, la pellicola dei Vicious: una regia che non riesce a sfruttare a pieno la tensione che caratterizza il filone non viene aiutata né da scelte visive dalla flebile carica né dalla narrazione pesante e contrita, la cui trama confusionaria passa dallo psichiatrico al paranormale puro, senza farsi mancare una buona dose di inutile satanismo. Eppure, il progetto poteva valersi di una storia vera che, probabilmente, mette più paura della pellicola stessa. Il Collingwood Psychiatric Hospital può vantare davvero un passato da horror: dal 1895 al 1963, anno della chiusura, l’ospedale del Maryland ha ospitato più di 80.000 pazienti affetti da disturbi mentali; la fama della struttura è legata alle barbare tecniche curative, che prevedevano torture fisiche e abituali processi di lobotomia: già nel 1930 a Colingwood erano state effettuate più lobotomie che in qualsiasi altra struttura del Paese. Il giovanissimo e sconosciuto cast non rimedia all’insuccesso, anche se spicca, tra l’opacità generale, la prova di Sean Rogerson.

La già limitata tensione della sala svanisce non appena le luci si riaccendono e scorrono i titoli di coda. Stanotte dormiremo sonni tranquilli.

VOTO 4/10

Marco Fiorillo

Pier Lorenzo Pisano

Sette anni in Tibet (1997)


Ciclo "Per non dimenticare": I Grandi Viaggi



Brad Pitt: Heinrich Harrer
David Thewlis: Peter Aufschnaiter
Ingeborga Dapkunaite: Ingrid Harrer
Dorjee Tsering: Tenzin Gyatso a 4 anni
Sonam Wanhchuk: Tenzin Gyatso a 8 anni
Jamyang Jamtsho Wangchuk: Tenzin Gyatso a 14 anni
Jetsun Pema: Madre del Dalai Lama
Mako: Tsarong
B.D. Wong: Njawang Jigme
Regia: Jean- Jacques Annaud
Soggetto: Henrich Harrer, Becky Johnston
Sceneggiatura: Jean- Jacques Annaud, Iain Smith, John H. Williams
Musiche: John Williams

Un uomo si inerpica sul sentiero della vita, superandone gli ostacoli come valichi di montagna. Attraversa le stagioni del tempo, osservando il cambiamento fuori e dentro di se. Il viaggio diviene vita e la meta si confonde quella stessa vita, non appena la pace agognata ci si pone davanti così prepotentemente che non ci accorgiamo nemmeno di averla raggiunta.
Superuomo sportivo, membro del Partito Nazionalsocialista, l’arrogante scalatore Heinrich Harrer si prepara all’impresa della vita, il raggiungimento della vetta del Nanga Parbat, il 9° vertice del Mondo indomito fin a quel momento. Nell’affrontare la sfida, ne abbandona, però, un’altra: lascia a casa la moglie, Ingrid (Ingeborga Dapkunaite), in attesa del suo primogenito. Il pensiero rivolto alla famiglia e le asperità della scalata mettono a dura prova il gruppo, guidato da Peter Aufschnaiter (David Thewlis); ben presto, le tormente di neve impediscono l’avanzamento della spedizione e costringono ad un repentino dietrofront. Sulla strada del ritorno, Harrer, Peter e compagni vengono catturati e imprigionati dai soldati inglesi: durante l’assenza dall’Europa, è scoppiata la Guerra tra Inghilterra e Germania e loro sono diventati nemici. Per due lunghi anni, Heinrich è costretto alla detenzione, resa ancor più amara dall’arrivo della richiesta di divorzio mossa dalla moglie, decisa a sposarsi con un altro uomo. Dopo svariati e rocamboleschi tentativi, ad alcuni dei compagni che insieme avevano cominciato la spedizione nel 1939, riesce la fuga. Nonostante la ritrosia iniziale, figlia di un carattere schivo e altezzoso, Harrer accetta la compagnia di Peter: i due si dirigono verso il Tibet, raggiungendo la “città proibita”, Lhasa. Qui, gli stranieri vengono accolti con calore dai tibetani, che aprono loro le porte di un mondo sconosciuto e lontano; in questo ricovero di pace, Harrer trova la forza di ascolta il cuore e cerca epistolograficamente, il figlio mai conosciuto. Il cuore, però, gli viene spezzato da una lettera molto dura del primogenito che nega qualsiasi parentela con quell’uomo di cui non aveva nemmeno mai visto il volto. Quando sembra di nuovo vicino lo sconforto, Harrer viene insignito di un grande onore: diviene il precettore del Dalai Lama, un quattordicenne molto interessato alla cultura europea. Nella giovane guida, Harrer intravede quel figlio che non ha mai conosciuto: si legherà così tanto a lui da sentire il bisogno di proteggerlo, al momento dello scoppio della guerra tra il Tibet e la Repubblica Popolare Cinese, per poi rendersi conto che il suo viaggio non si è ancora concluso.
La pellicola è liberamente ispirata al libro autobiografico scritto da Heinrich Harrer e pubblicato nel 1953, in cui lo scalatore austriaco ha riunito i ricordi relativi ai sette lunghi anni trascorsi in Tibet. L’adattamento cinematografico dell’opera, curato dal regista francese Jean- Jacques Annaud, perde il rigore narrativo del “diario di cronaca” per lasciar spazio ad un intricato sistema tematico. Così, il Viaggio diviene opportunità di cambiamento, in cui il sentiero porta al cambiamento, quasi alla “purificazione”, di un uomo che non ha mai ascoltato il proprio cuore, vestendosi della rigidezza e della superbia di quelle stesse vette che tanto lo affascinano. Il percorso porta l’uomo verso un nuovo modo di concepire l’esistenza, verso una nuova saggezza, senza la quale il cambiamento sarebbe rimasto incompiuto. Prende forma un attento gioco di paragoni tra culture lontanissime, riunite nel posto e nel modo meno probabili, come a testimonianza di un miracolo. Si trova spazio, inoltre, per una digressione critica nei confronti del peso dei conflitti bellici, arrivati a deturpare una pace ben più radicata che in qualsiasi altro luogo. Il tutto è arricchito da riprese di paesaggi che ammutoliscono per bellezza e candore. Il proposito poetico dai molteplici livelli, che la pellicola si propone, si sgretola miseramente dinanzi ad una narrazione poco interiorizzata, quasi “documentaristica”, in cui i sentimenti sembrano accennarsi e mai svelarsi nella proprio pienezza. A ciò, si aggiunge un’eccessiva durata che lede nel godimento della pellicola.
La direzione di Annaud e la rivisitazione cinematografica del romando condotta da Becky Johnston sembrano allontanarsi troppo dall’opera di Harrer. La sensazione vale anche per l’interpretazione di Pitt, il cui cambiamento, da muscolare interprete di un’ideologia politica ad uomo finalmente cresciuto, risulta privo di veridicità e forza emotiva. Buona la prova di Thewlis, che si spiana il terreno per lavori successivi. Spiccano, dietro le cineprese, le fatiche dell’intramontabile maestro John Williams e la fotografia di Robert Fraisse, vivida e d’impressione.
All’uscita, il film fu accolto da una critica particolarmente negativa e venne condannato dalla Repubblica Popolare Cinese, che accusò la produzione tutta d’aver realizzato un’opera di parte. Non è un caso se il regista e i due attori principali sono stati banditi per sempre dalla Cina.
Una curiosità: fu dichiarato che il film era stato girato in Argentina, per la maggior parte, e in Nepal, Austri e Canada; due anni dopo la realizzazione della pellicola, il regista svelò che alcune riprese erano state fatte segretamente in Tibet, per un totale di 20 minuti di girato.
Considerati l’entourage tecnico ed il cast, le location e la storia, ci si aspettava probabilmente qualcosa di più. La tensione emotiva sempre accennata, il vertice narrativo mai raggiunto e una storia fatta di varie anime tenute insieme con poco collante, non permettono l’ingresso dell’opera nel paradiso del successo.
VOTO 6/10
Marco Fiorillo
Pier Lorenzo Pisano

Lawrence d’Arabia(1962)


Ciclo "Per non dimenticare": I Grandi Viaggi



Regia:David Lean
Soggetto:Thomas Edward Lawrence (appunti)
Fotografia:Freddie Young
Peter O'Toole: Thomas Edward Lawrence
Alec Guinness: Emiro Faysal (futuro Faysal I d'Iraq)
Anthony Quinn: ‘Awda Abū Tayy
Jack Hawkins: Gen. Lord Edmund Allenby
Omar Sharif: Sharīf ‘Ali ibn al-Kharīsh
José Ferrer: Bey turco, comandante d'una guarnigione
Anthony Quayle: Col. Harry Brighton
Claude Rains: Mr. Dryden
Arthur Kennedy: Jackson Bentley
Donald Wolfit: Gen. Sir Archibald Murray
I.S. Johar: Qāsim
Gamil Ratib: Maǧīd
Michel Ray: Farrāǧ
John Dimech: Daʿūd
Zia Mohyeddin: Tafas

Lawrence d’Arabia è un film imponente, di respiro epico, forse “Il”film epico, una pietra miliare del cinema rispetto alla quale tutti i film successivi (uno su tutti, “The english patient”)hanno dovuto fare i conti e subire forti suggestioni e condizionamenti da cotanto modello. Senza contare l’enorme numero di registi che sono stati influenzati dalla visione di questo capolavoro tra i quali ricordiamo Steven Spielberg, che ha definito il film un "miracolo".

Ispirato alla affascinante storia del tenente Thomas Edward Lawrence, personaggio dai tratti chiaroscuri, che alterna un idealismo incrollabile ed un’altissima fiducia in sé stesso, ad aspri momenti di scetticismo, delusione e perdita di un senso. Lawrence si trova a rappresentare un paese, la Gran Bretagna della prima Guerra Mondiale, subdolo e contraddittorio nei confronti del popolo arabo, ma allo stesso tempo subisce il fascino del deserto e sente in sé grande affinità con le genti del deserto.

La ricostruzione storica è accuratissima, nei costumi e nel ricreare le norme sociali della colonia inglese. Tuttavia numerose sono le imprecisioni a livello storico, sulle quali non ci soffermiamo, poiché certi episodi sono abbastanza romanzati, ed è stato in parte alterato quello che davvero Lawrence era (anche se la vicenda del film è stata tratta dagli appunti di Lawrence stesso), ma tutto ciò è in favore di grande livello di spettacolarità e coinvolgimento. Il gioco valeva la candela.

Questo grande kolossal in costume è cosi imponente e con scene di guerra così bene allestite e credibili da fare invidia ai moderni blockbuster. La fotografia di Freddie Young è magistrale e gli valse il primo dei suoi tre Oscar alla fotografia ed un Golden Globe. Sullo schermo si susseguono scene potenti ed evocative, superbe e poetiche, la telecamera incornicia ambienti naturali meravigliosi, espressioni e volti intensissimi e ricrea con maestria le sensazioni e le situazioni esplosive suscitate della prima Guerra Mondiale.

La costruzione psicologica del personaggio di Lawrence è molto interessante. Una persona singolare, sicuramente un grande uomo, forse però non sempre in grado di sopportare il peso di quello che sta creando, e con alcuni tratti di personalità molto oscuri ed inspiegati, ma che rendono ancora più vivo il personaggio, reso da un Peter O'Toole che pare prendere vita e balzare fuori dallo schermo.

Inoltre è da sottolineare come le grandi interpretazioni, la splendida fotografia sopracitata, l’incalzare delle vicende ed il grande ritmo, contribuiscono a fare di questa pellicola un capolavoro senza tempo che non mostra minimamente segni di cedimento dopo cinquant’anni. È bello, o forse triste, a seconda dei punti di vista, pensare a come un film del 1962 sia rimasto insuperato per bellezza anche confrontandolo a film simili attualmente in produzione. I dialoghi, l’azione, la componente estetica, tutto è perfettamente bilanciato.

Voto: 9/10
Pier Lorenzo Pisano
Marco Fiorillo