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sabato 22 ottobre 2011

Un poliziotto da happy hour


Titolo originale: The Guard
Irlanda: 2011. Regia di: John Michael McDonagh Genere: Commedia Durata: 98'
Interpreti: Brendan Gleeson, Don Cheadle, Liam Cunningham, David Wilmot, Rory Keenan, Mark Strong, Fionnula Flanagan, Dominique Mcelligott, Sarah Greene, Katarina Cas, Pat Shortt, Darren Healy
Sito web ufficiale: www.sonyclassics.com/theguard
Sito web italiano:
Nelle sale dal: 21/10/2011
Voto: 7
Trailer
Recensione di: Francesca Caruso
L'aggettivo ideale: Umoristicamente sovversivo
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Un poliziotto da happy hour su Facebook
Un poliziotto irriverente, dall’umorismo sovversivo e che non guarda in faccia nessuno, quando esprime la propria opinione, non si trova proprio tutti i giorni al cinema.
Il Sergente Gerry Boyle è un poliziotto irlandese con un personale codice di comportamento, un tipo solitario e poco propenso a spendersi per il prossimo, che dovrebbe servire e proteggere.
Quando nella cittadina arriva un agente dell’FBI in cerca di una banda di spacciatori, la sua tranquilla routine viene messa a repentaglio.
I due agenti saranno costretti a collaborare, ma riusciranno a sopportarsi?
L’idea di questo personaggio atipico scaturisce dalla mente del regista e sceneggiatore John Michael McDonagh parecchi anni fa, quando fa il suo esordio alla regia con il corto “The Second Death”, protagonista del quale è il poliziotto Gerry.
La voglia di ampliare quel personaggio e farlo vivere di vita propria lo spinge a scrivere la sceneggiatura. Dopo diverse vicissitudini lo script diventa un lungometraggio, che vede nei panni del poliziotto il bravissimo Brendan Gleeson, il quale ha ottenuto un vasto consenso per il film “In Bruges -La Coscienza dell’Assassino” di Martin McDonagh (fratello di John).
Come suo partner nel ruolo dell’agente dell’FBI viene scelto Don Cheadle, dimostrandosi una vera garanzia di qualità.
L’attore è riuscito a palesare bene lo spaesamento del suo personaggio: il suo sentirsi un pesce fuor d’acqua in luoghi dove molti non parlano neanche l’inglese – lingua universalmente riconosciuta. Il personaggio delineato da John Michael McDonagh è sicuramente uno di quelli che si ricordano a lungo.
Gerry Boyle compie deliberatamente delle azioni o dice delle cose per irritare le persone e il suo temporaneo collega è un bersaglio perfetto. Il film è profuso di un’ironia dark e anticonvenzionale: il protagonista dice tutto quello che sicuramente farà alterare il suo interlocutore con un’“innocenza” che lascia senza replica.
Sembra strafottente e indifferente a tutto ma, dopo averlo conosciuto un po’, quando meno ce lo si aspetta mostra la sua umanità e la sua radicata onestà, rivelandosi migliore di tutti quelli che lo circondano. Risulta subito simpatico e giocoso.
La prima impressione è che stia giocando con chi ha di fronte e chi ha davanti a sé è anche lo spettatore, entrambe le parti rimangono sconcertate, interrogandosi: “ma dice sul serio?”. Per ciò che riguarda la scenografia e i costumi McDonagh ha voluto creare un’atmosfera stilizzata e per ottenere ciò ha giocato molto con i colori.
La tinta viola con cui è tappezzata la stanza del G Hotel ne è una bellissima rappresentazione e naturalmente salta subito agli occhi. La colonna sonora segue la linea suddetta e il regista ha scelto la musica di una band indie di Tucson (Arizona), scritta appositamente per il film.
La storia si svolge in luoghi ben conosciti dallo stesso regista, viene mostrata la suggestiva campagna irlandese in tutto il suo fascino, mai in maniera scontata o presa da una cartolina.
Le riprese sono state effettuate perlopiù tra Connemara e Wicklow. “Un Poliziotto da Happy Hour” è un film pieno di ironia, d’ilarità, al centro del quale c’è un personaggio che riesce ad arruffianarsi fin da subito le simpatie del pubblico.

Melancholia


Titolo originale: Melancholia
Danimarca, Svezia, Francia, Germania: 2011. Regia di: Lars von Trier Refn Genere: Fantascienza Durata: 130'
Interpreti: Kirsten Dunst, Charlotte Gainsbourg, Kiefer Sutherland, Charlotte Rampling, Alexander Skarsgård, Stellan Skarsgård, Udo Kier, John Hurt, Brady Corbet
Sito web ufficiale: www.melancholiathemovie.com
Sito web italiano:
Nelle sale dal: 21/10/2011
Voto: 7
Trailer
Recensione di: Marco Aresu
L'aggettivo ideale: Ineluttabile
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Melancholia su Facebook
Il rapporto tra due sorelle, Justine (Kirsten Dunst) e Claire (Charlotte Gainsbourg) mentre un pianeta interstellare si avvicina pericolosamente alla terra. Presentato al 64° Festival di Cannes, “Melancholia” di Lars Von Trier è un dramma più psicologico che apocalittico che nasce dalle esperienze (più depressive che malinconiche) del regista danese.
La pellicola è divisa in un prologo e due capitoli. Sulle note del "Preludio" di “Tristano e Isotta” immagini simboliche e surreali narrano sino alla fine un film che non abbiamo ancora visto, in una modalità estetica già presentata in “Antichrist”.
Il primo capitolo racconta la lenta caduta in depressione di Justine nel giorno del suo matrimonio, in un folle vortice di rapporti con i familiari, gli ospiti e lo sposo, e la strana influenza di una stella che brilla più delle altre. Il secondo capitolo mostra l’angoscia di Claire (e l’indifferenza di Justine) mentre il pianeta Melancholia è ormai prossimo alla terra con rischio di collisione.
Un destino ineluttabile che arriva posandosi come un velo di malinconia, di depressione, e si esprime nel dualismo indifferenza/disperazione, consapevolezza/inconsapevolezza, di due sorelle antitetiche, Justine e Claire. Non c’è un Dio, non c’è un salvatore, la natura fa una pulizia cosmica danzando sulle note di Wagner, e la fine diventa follemente poetica ed emozionante.
Ci sono tanti interrogativi (gli influssi di Melancholia) e tanti personaggi emblematici (come il Wedding Planner interpretato da Udo Kier, che si mette una mano sul viso per non vedere la sposa). Rispetto ad altri film di Von Trier, Melancholia presenta una trama lineare che evidenzia le reazioni, le interazioni dei personaggi e il loro cambiamento con l’avvicinarsi del pianeta. Kirsten Dunst ha meritato la Palma d’oro per la capacità di mostrare una varietà di stati d’animo e Charlotte Gainsborg, con il suo low profile, mostra tutta la fragilità di Claire. Attorno a loro la razionalità tradita di John (Kiefer Sutherland), il marito di Claire e l’innocenza del figlio Leo (Cameron Spurr).
Lars Von Trier mette sulla bocca di Justine (il suo alter ego) la ragione di questo epilogo in modo asciutto, presuntuoso e terribile: “la Terra è malvagia, non dobbiamo provare dispiacere per lei” e condisce il personaggio con altre sentenze nichiliste come “siamo soli nell’universo”.
Accettando la visione di Von Trier possiamo godere di questa immaginifica dissoluzione del mondo e concederci pure qualche sussulto: d'altronde anche l’indifferente Justine piange a pochi attimi dal nulla.

Super (2011)


Rainn Wilson: Frank D’Arbo/ Saetta Purpurea
Ellen Page: Libby/Saettina
Liv Tyler: Sarah
Kevin Bacon: Jacques
Nathan Fillion: The Holy Avenger
Michael Rooker: Abe
Sean Gunn: Toby
Regia: James Gunn
Sceneggiatura: James Gunn
Fotografia: Steve Gainer
Effetti Speciali: Ken Reid
Musiche: Tyler Bates
Scenografie: William Elliot, Dave Hagen
Costumi: Mary Matthews

Frank D’Arbo (Rainn Wilson), cuoco spento e demotivato, trova felicità solo nella vita coniugale con l’ex tossicodipendente Sarah (Liv Tyler). Quando, però, la donna decide di lasciarlo in favore dello spacciatore Jacques (Kevin Bacon), Frank vede il proprio fragile castello di certezze cadere miseramente. Stressato psicologicamente, si convince d’essere stato scelto dall’indice di Gesù Cristo in persona per diventare un supereroe. Assume così l’alter ego di “Saetta Purpurea” reinventando se stesso e dedicando la sua vita alla lotta contro il crimine. Al suo fianco la giovane sboccata e violenta Libby (Ellen Page), cassiera del negozio di fumetti di giorno, “Saettina” di notte al fianco dell’eroe. Insieme la coppia salverà più d’una vita, scoprendo le vere fattezze del coraggio.
Film low-budget dai tratti fumettistici, “Super” a primo impatto sembra un modaiolo prodotto cinematografico, ironico , violento, irriverente, eccessivo. Di sicuro sono caratteri che il regista e motore del progetto James Gunn non manca di inserire, tuttavia la pellicola impressiona per il tessuto implicito che le fa da sfondo. La disperazione al limite della depressione di Frank/Wilson, la violenza verbosa- fisica- sensuale di Libby/Page, la criminalità e i vizi di Sarah/Tyler e Jacques/Bacon come di tutti gli altri delinquenti puniti sul set, diventano le forme per esprimere una potente critica verso i falsi miti della società moderna, tanto radicati che anche gli eroi devono fare di quella stessa violenza e perversione un’arma per punire “i cattivi”. Quando Saetta Purpurea viene sconfitto da uno spacciatore qualunque armato del coperchio di un cassonetto usato come un non sospetto scudo (n.d.r. Si tratta dello scudo del supereroe Marvel Capitan America), è difficile distinguere l’eroe dal criminale. Questo perché, per Gunn il coraggio non risiede in una maschera o in super poteri bensì nello spirito di contrapposizione e nell’umano coraggio. “Tutto quello che ci vuole per essere un supereroe è scegliere di combattere il male”, ecco lo slogan del film pronunciato da Saetta Purpurea, interprete di uno spirito di rivalsa personale che fa da protagonista della pellicola come confermato dallo stesso regista: “Una persona deve ascoltare il proprio cuore e decidere cosa fare della propria vita. Non importa se puoi sembrare pazzo, se la gente ti reputa pazzo, uno “sbagliato”. Ti devi fare forza e andare dritto per la tua strada, parlando direttamente alla tua anima.”
“Super” riunisce la tanto acclamata squadra di “Juno”, composta dal trittico Gunn- Wilson- Page, cui si aggiungono Liv Tyler e Kevin Bacon, partecipi della buona qualità del girato. Ciò che sbalordisce è la rapidità di realizzazione relazionata al budget speso: un film dai bassissimi costi girato in soli 24 giorni. Eppure assistiamo ad ottime prove personali, su tutti Ellen Page non paga del successo raggiunto e sperimentatrice di un inedito approccio fisico, e ad una riuscita corale che lascia piacevolmente sorpresi. Che sia ancora possibile fare del buon Cinema rinunciando a carissimi effetti speciali e violando i moderni cliché?
7/10
Marco Fiorillo
Pier Lorenzo Pisano

giovedì 20 ottobre 2011

M. Butterfly (1993)


Ciclo "Per non dimenticare": Il Teatro al Cinema

Jeremy Irons: Renè Gallimard
John Lone: Song Liling
Barbara Sukowa: Jeanne Gallimard
Ian Richardson: Ambasciatore Tovlon
Regia: David Cronenberg
Soggetto: David Henry Hwang
Sceneggiatura: David Henry Hwang
Fotografia: Peter Suschitzky
Musiche: Howard Shore
Scenografie: Carol Spier
Costumi: Denise Cronenberg

Un dramma sentimentale. Lo scontro tra due Mondi diversi. Un gioco di metamorfosi fisica ed interiore che un maestro del genere, quale Cronenberg, non poteva farsi scappare.
Beinjing, 1964. Il diplomatico Renè Gallimard (Jeremy Irons), da poco trasferitosi in Cina insieme alla moglie Jeanne (Barbara Sukowa), finisce quasi per caso al teatro, dove ascolta la cantante locale Song Liling (John Lone) cimentarsi in un’interpretazione della Madame Butterfly. Incuriosito dalla giovane orientale, Renè si lascia trasportare in una relazione adulterina destinata a sconvolgergli la vita, facendogli smarrire bussola e meta.
La pellicola, seppur prenda le mosse da un fatto realmente accaduto, si ispira liberamente al’opera teatrale “Madame Butterfly” messa in scena da Puccini intorno al 1900, a sua volta ispiratosi al dramma orientale in un atto di John Luther Long e David Belasco. Una vicenda di per sé molto forte che viene ulteriormente esaltata dal talento e dal gusto di Cronenberg, che sembra rispecchiarsi totalmente nella pellicola realizzata. Il regista porta sul Grande Schermo due figure tratteggiate con piacevole maestria, il “Diavolo Bianco”, rispettabile e operoso occidentale, e “La Schiava”, fragile donna orientale: sono le rappresentazioni di due universi ancestralmente lontani e posti in maggior conflitto dai moti politici del periodo, il 1968, e dalla Guerra del Vietnam. Ma il conflitto materiale non sembra interessare Cronenberg che, al contrario, predilige il protagonismo del sentimento che sboccia tra i due personaggi, macchiato dal cambiamento. La pudica schiava sboccia nella passione scatenata dal diavolo francese che, a sua volta, si perde nei giochi di vergogna e concessioni imbastiti dalla donna. Si perde a tal punto da non accorgersi della verità che ha davanti agli occhi sino a quando non di dispiega, prepotente e allucinante. La sua vita diviene così una menzogna e nient’altro e l’ultima mutazione si consuma sullo schermo, quando è lo stesso Renè/Irons a vestire i panni di Madame Butterfly mentre il suo amore si allontana per sempre, vestendo i panni occidentali del segreto e dell’ipocrisia.
Da sempre affascinato dal cambiamento e dalle pieghe più cupe dell’esistenza umana, Cronenberg mostra tutta la proprio abilità nella gestione di due talenti come Irons e Lone, capaci di trasportare lo spettatore nel sogno che hanno imbastito per loro stessi. Accompagnano il regista, i compagni di sempre: Peter Suschitzky alla fotografia, Howard Shore alle musiche e Denise Cronenberg ai costumi, cui si aggiunge lo sceneggiatore David Hwang.
Al pubblico è offerta una storia forte narrata in maniera altrettanto vivida, in cui si bilanciano perfettamente passione e vergogna, certezze e segreti, disperazione e profondi cambiamenti. Una pellicola “alla Cronenberg”.
VOTO 7/10
Marco Fiorillo
Pier Lorenzo Pisano

I Tre Moschettieri (2011)


Logan Lerman: D’Artagnan
Mathen McFayden: Athos
Ray Stevenson: Porthos
Luke Evans: Aramis
Christoph Waltz: Cardinale Richelieu
Milla Jovovich: Milady De Winter
Juno Temple: Regina Anna
Mads Mikkelsen: Rochefort
Orlando Bloom: Duca di Buckingham
Til Schweiger: Cagliostro
Regia: Paul W. S. Anderson
Soggetto: Alexandre Dumas
Sceneggiatura: Paul W. S. Anderson, Andrew Davies
Fotografia: Glen MacPherson
Musiche. Paul Haslinger
Scenografie: Paul D. Austrberry

Finalmente anche il romanzo “cappa e spada” viene inserito nell’ultimissima moda della riproposizione cinematografica in grande stile, coadiuvata, sempre come vogliono le recentissime dinamiche di mercato, dalla tecnologia 3D. Considerati i risultati vien da pensare che certe storie debbano rimanere su carta.
Giovane impetuoso e buffone, D’Artagnan (Logan Lerman) parte alla volta di Parigi per entrare nel corpo di guardie reali noto col nome di Moschettieri, spinto dalle gesta dei tre migliori rappresentanti dell’ordine: Athos (Mathen McFayden), Porthos (Ray Stevenson) ed Aramis (Luke Evans). Il gruppo verrà coinvolto in un intrigo politico che vede protagoniste la Francia del Cardinale Richelieu (Christoph Waltz) e l’Inghilterra del Duca di Buckingham (Orlando Bloom), giostrandosi tra intrepidi combattimenti ed altrettanto pericolose passioni, che vedono coinvolta la misteriosa Milady De Winter (Milla Jovovich).
Escluse le serie televisive e quelle animate, il romanzo di Dumas “I Tre Moschettieri”, edito nel lontano 1844, è stato riproposto su pellicola circa quindici volte, trovando anche vesti di qualità, tra cui l’omonima versione del 1993 e “La Maschera di Ferro” del 1998. L’iter del capolavoro letterario sembra il più classico: il grande romanzo e le varie riproposizioni destinate a scemare qualitativamente nel corso del tempo, come dimostrato da quest’ultima pellicola diretta da Anderson. Il regista britannico riduce all’osso le sfaccettature conferite alle pagine da Dumas, proponendo una caratterizzazione scontata e banale dei vari personaggi, per cui D’Artagna/Lerman è il giovane donnaiolo e ardimentoso, Porthos /Stevenson è il forzuto lascivo, Athos/McFayden è l’eroe decadente, e così via. I dialoghi sono ridotti a strip fumettistiche che non rendono giustizia e moltissimi accorgimenti sembrano presi di sana pianta da altre pellicole o da prodotti video-ludici (su tutti il recentissimo “Assassins’ Creed”). Motore del film doveva essere l’azione che pure convince poco, divisa tra coreografie trite ed un 3D caricato di aspettative ma che, di fatto, costituisce un apporto veramente limitato alla riproposizione in questione.
Specializzato nell’adattamento cinematografico di videogiochi, da “Mortal Kombat” alla famosissima saga di “Resident Evil”, Anderson sembra non riuscire ad allontanarsi neanche in questo caso dal Mondo delle piattaforme. Scontati e monotematici i tre eroi, cui si aggiunge il troppo giovane Lerman, portato al successo del recentissimo “Percy Jackson e gli Dei dell’Olimpo”, e il beniamino Orlando Bloom, che con quei vestiti seicenteschi e l’atteggiamento sprezzante non può non portare alla memoria il “suo” pirata Will Turner. Un plauso lo meritano Milla Jovovich, moglie del regista e già sua collaboratrice svariate volte, e Mads Mikkelsen, acclamatissimo alla 66° Mostra Internazionale del Cinema di Venezia per la sua interpretazione in “Valhalla Rising- Regno di Sangue”.
Prodotto diretto alle nuove generazioni di appassionati, quest’ultimo episodio dei paladini di Francia si innesta perfettamente nei nuovi meccanismi del mercato. Essere pronti a sacrificarsi per il Dio denaro sembra un dovere, un piacere fare del buon Cinema.
VOTO 4/10
Marco Fiorillo
Pier Lorenzo Pisano

This must be the place (2011)


“This must be the place”, primo film americano di Sorrentino, è il risultato della sua collaborazione con Sean Penn. Questo incontro è stato reso possibile dalla stima che Penn ha del regista, conosciuto a Cannes dove era chiamato a giudicare il suo “Il divo”, che lo ha impressionato molto positivamente.
Come ammette lo stesso Sorrentino, egli non riesce a non avvolgere i personaggi dei suoi film in un velo di malinconia, ed è proprio sui personaggi e sulla loro vividezza che si basa il girato.
Cheyenne (Sean Penn) è un ex-cantante maledetto dall’appariscente stile dark-goth, vive una vita abitudinaria ed agiata, portando sempre con se un carrello (poi una valigia), forse simbolo tangibile delle sue insicurezze. È afflitto da un sentimento che non riesce a spiegarsi, una sorta di depressione mista a noia, un generico male di vivere che col proseguire del film si andrà sempre più chiarendo.
Il personaggio a cui Sean Penn dà vita è favolosamente tridimensionale: ha un passato da rockstar alle spalle, del quale mantiene soltanto il makeup, astenendosi da alcol, droghe, sesso extraconiugale ed addirittura musica: è l’antirockstar.
Parla in maniera estremamente lenta, con una vocina tenue e buffa, una risata risibile e cammina sempre leggermente curvato (‘Deve avere la stesso incedere dei ricchi che si sentono in colpa’, secondo Penn).
Sembra possedere l’ingenuità di un bambino, ed in effetti lo è. Il film è anche un’opera di formazione sulla figura di Cheyenne, anzi questo è forse il suo carattere più palese, dal momento che il suo essere bambino è riferito da uno dei personaggi stessi, ed il finale di crescita e maturazione è evidente da molti segni disseminati durante il film, che sono portati a compimento nel finale.
Ma ci sono altri due elementi che fanno grande questo film, oltre all’apparentemente indecifrabile Cheyenne: la ricchezza delle sottotrame, appena accennate ma così dense e vivide da rimanere impresse (si guardi la scena-senza parole- dell’indiano), che fanno della pellicola un lavoro corale (con un capo-coro d’eccezione). Ulteriori elementi notevoli, la regia e la fotografia: i cambi di scena non sono mai banali e sono sempre significativi, combaciano perfettamente con la colonna sonora, per la quale si deve ringraziare un grande David Byrne, presente nel film nella parte di se stesso.
Il film tratta di tematiche molto variegate, che vanno dal disagio adolescenziale, nella figura della ragazzina (Eve Hewson) che accompagna l’ex-rocker, nello stesso Cheyenne, per passare a dolori più “adulti”, come quello della separazione da un figlio, la crisi di mezza età, quando si passa dal “un giorno farò” all’ “ormai è così”, per finire con la vendetta, che può consumare un’intera vita.
Interessante notare come ogni accenno di crisi, ogni climax raggiunto in una scena è immediatamente interrotto proprio al suo culmine, come un susseguirsi di singhiozzi lungo un film che è anche un road movie.
Fortunatamente la pellicola sta anche sbancando ai botteghini, il pubblico sta premiando la qualità, una volta tanto.
VOTO 8/10
Pier Lorenzo Pisano
Marco Fiorillo