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mercoledì 22 febbraio 2012

Il Punto del Weekend


A una settimana dall’attesissima assegnazione dei premi Oscar, il penultimo finesettimana di Febbraio vede le sale contese da due pellicole assolute protagoniste delle nominations alle ambite statuine, “War Horse” e “Paradiso Amaro”, cui si aggiungo quattro pellicole in grado di accontentare tutti i palati.

I PROTAGONISTI
War Horse” racconta la vita del cavallo Joey, dal primo acquisto da parte della famiglia Narracott al profondo legame stretto con Narracott figlio, Albert; dalla militanza nell’esercito al fianco del capitano Nicholls fino alla permanenza nella tenuta francese della piccola Emily. Richiamando l’interesse zoomorfo per l’altro dall’umano proprio de “Lo Squalo”, ricostruendo l’atmosfera eroico- battagliera de “Salvate il Soldato Ryan” ed intingendo tutto in quella resa scenografica e dell’azione alla John Ford, Steven Spielberg affronta il suo ultimo lungometraggio facendone una pellicola semplice, godibile senza troppo impegno emotivo ed intellettuale, rimanendo comunque fedele alle aspettative legate al proprio nome.
Nell’universo di “In Time”, invece, gli uomini e le donne sono geneticamente programmati per vivere fino a 25 anni, età dopo la quale cominciano una lotta contro il tempo per rimanere in vita; in questo futuristico scenario si muove Will Salas: salva la vita ad un uomo benestante che ricambia il gesto cedendo al ragazzo un secolo di vita, che Will decide di investire tentando di arrivare nella “Time Zone”. Dopo l’opera prima “Gattaca”, Andrew Niccol ritorna nel sottobosco sci-fi del tempo e delle sue sfumature: una società profondamente ripartita (mortali ed immortali) in cui si muove un giovane, desideroso di cambiare l’ordine ed accompagnato da una ragazza bella e ricca. Buona l’idea, buona la realizzazione.
In “Jack e Jill”, la vita tranquilla del pubblicitario Jack e della sua famiglia viene sconvolta dal puntuale arrivo per ogni festa del Ringraziamento di Jill, sorella di lui. Più film demenziale che commedia, “Jack e Jill” è il prodotto del ruolo rivestito da Adam Sandler nel panorama comico statunitense: un umorista del popolo dalla risata facilona, costretto annualmente a pagare lo scotto della propria appartenenza di pubblico. In questo caso, affronta la più classica delle trasformazioni nella controparte femminile (forse il precedente migliore e più illustre e la “Mrs. Doubtfire” di un certo Robin Williams), impreziosita da cammei d’eccezione, su tutti Johnny Deep e Al Pacino.
Nelle liste dei protagonisti alla notte degli Oscar è anche “Paradiso Amaro”. La pellicola ha come protagonista Matt King, la cui spensierata vita alle Hawaii viene sconvolta dal coma irreversibile in cui cade la moglie e dalla nuova preoccupazione destata dal rapporto con le due figlie, quasi sconosciute dopo gli anni dedicati quasi completamente al lavoro; a ciò si aggiunge la scoperta del rapporto extraconiugale della moglie. La parabola, eccellentemente tratteggiata da Alexander Payne e magistralmente interpretata da George Clooney, è quella d’una famiglia semplicemente “umana”, chiamata a mantenere i propri equilibri meccanici di fronte ai dolori della vita. Un prodotto ottimo, sia sul versante emozionale che su quello puramente tecnico.
Qualche gradino più giù si colloca, invece, “ATM- Trappola Mortale”. Dopo aver partecipato ad una festa aziendale, tre colleghi si fermano in un bancomat a prelevare; al di fuori della cabina si presenta un uomo incappucciato che dimostra le sue intenzioni quando uccide a sangue freddo un passante ed il suo cane. Una location, tre persone chiuse in un luogo angusto, una situazione al limite della paranoia: gli ingredienti sembrerebbero quelli giusti per un classico della tensione la cui riuscita ultima viene,però, profondamente minata dallo scialbo script e dalla più che limitata presa psicologica. I presupposti c’erano, peccato solo quelli.
In ultimo, “… E ora parliamo di Kevin” racconta del difficile rapporto madre-figlio stabilito tra Eve, donna di successo piegata alla vita familiare dalla gravidanza, e Kevin, bambino muto, giovanotto disubbidiente, adolescente in piena ribellione. Adombrata dalle difficoltà familiari si muoverà una tragedia dei tempi moderni, di quelle che si ascoltano al notiziario delle 6 ma di cui mai si conoscono i reali meccanismi. Il trittico costituito da Lynne Ramsay, Tilda Swinton ed Ezra Miller, rispettivamente regista e protagonisti delle pellicola, danno vita al delicato universo della maternità, ricostruendo con estrema forza narrativa l’incedere d’una tragedia quotidiana. Stupisce, e non poco, che non se ne faccia nemmeno menzione al momento delle assegnazioni delle nomine per gli Oscar.

LE SORPRESE
Californiana, classe 1991, Shailene Diann Woodley cominciò a recitare all’età di 5 anni, proseguendo la carriera tra sit-com e film per la televisione, fino alla più famosa interpretazione nella serie “Vita segreta di una teenager americana”. Approda al Grande Schermo proprio sotto la direzione di Alexander Payne ed al fianco di George Clooney, si guadagna una candidatura ai Golden Globe come Miglior Attrice non Protagonista. Di certo Shailene non va persa di vista!

I FLOP E I TOP
Vediamo adesso le prestazioni più negative del weekend:
3°.    Ultimo dei peggiori Justin Timberlake. Il bello della canzone americana si presta ancora una volta al Grande Schermo, cui approdò per la prima volta nel 2005, divenendo il miglior rappresentante di una delle peggiori abitudini d’oltreoceano, far d’una singola figura professionale un tuttofare dello spettacolo.
2°.    Secondo sul podio David Brooks. Il regista de “ATM- Trappola Mortale” cade all’esordio, realizzando una pellicola di per sé scontata già nell’elaborazione dei soggetti che migliora veramente poco in corso d’opera.
1°.    Senza dubbio il premio dei peggiori va ad Adam Sandler. Scontato e puntuale come il cine- panettone, il comico newyorkese porta nelle sale il lavoro probabilmente peggiore degli ultimi anni, sintomo della stanchezza del “prodotto proposto”.
Infine, i primi della classe:
3°.    Medaglia di bronzo a Steven Spielberg. Il senatore hoollywoodiano firma una pellicola dal sapore epico per ogni forma di esperienza sensoriale, un kolossal che comunque non rimarrà nel novero dei suoi migliori lavori.
2°.    Al secondo posto Alexander Payne. “Paradiso Amaro” completa il percorso di piena maturazione del regista: dopo i primi passi incerti ma autorevoli mossi con “Election” e “ A proposito di Schmidt”, e il salto di qualità registrato con “Sideways”, arriva l’atto ultimo, impreziosito dalla collaborazione con George Clooney.
1°.    Non v’è dubbio che la migliore del fine settimana sia Tilda Swinton. Dopo qualche prova meno qualitativa, l’attrice britannica ritrova tutto il suo talento, responsabile d’una prova matura ed eccellente che catalizza tutta l’attenzione del pubblico e della critica. A dimostrarlo, i tre premi vinti rispettivamente all’European Film Awards 2011, al National Board of Review Awards 2011 ed al S. Francisco Film Critics Awards 2011.

BOX OFFICE
È il maltempo a riempire le sale dei cinema italiani dell’ultimo weekend. Mantiene la vetta “Com’è bello far l’amore”, arrivato a quota 1.5 milioni, davanti alle due new entry, “Paradiso Amaro” e “In Time”. Mentre continua la striscia positiva di “Hugo Cabret”, che raggiunge i 5.3 milioni, delude la fredda accoglienza riservata a “War Horse”. Pessima anche la partenza di “Jack e Jill”, testimonianza dello scarso affetto per Adam Sandler da parte del pubblico nostrano.

Marco Fiorillo
Pier Lorenzo Pisano

lunedì 20 febbraio 2012

Paradiso Amaro (2012)




Paradiso amaro
Titolo originale: The Descendants
USA: 2011. Regia di: Alexander Payne Genere: Commedia Durata: 110'
Interpreti: George Clooney, Shailene Woodley, Amara Miller, Nick Krause, Patricia Hastie, Grace A. Cruz, Kim Gennaula, Karen Kuioka Hironaga, Carmen Kaichi, Kaui Hart Hemmings, Beau Bridges, Matt Corboy
Sito web ufficiale: www.foxsearchlight.com/thedescendants
Sito web italiano:
Nelle sale dal: 17/02/2012
Voto: 7
Trailer
Recensione di: Francesca Caruso
L'aggettivo ideale: Riflessivo

“Paradiso Amaro”, vincitore agli scorsi Golden Globe 2012, è diretto dal regista e sceneggiatore Alexander Payne, che ha realizzato la trasposizione cinematografica del romanzo d’esordio di Kaui Hart Hemmings, “The Descendants”.
Pubblicato nel 2009, il libro ha ottenuto un successo immediato.
Vi si racconta la storia di Matt King, avvocato di Honolulu, trovatosi improvvisamente a dover affrontare una tragica situazione familiare, che lo vede alle prese con la giovane figlia ribelle Alexandra e con la piccola e sveglia Scottie.
Tutti e tre si trovano a fare i conti con l’assenza della madre/moglie, a cui possono solo dire addio. Quando, però, Matt scopre che la moglie lo tradiva il corso degli eventi prende un’altra direzione.

Quella che Alexander Payne racconta è una storia che racchiude in sé diversi aspetti, posti tutto sullo stesso piano e che il regista analizza e sviscera durante tutto il film.
Aspetti come la famiglia, la terra, il passato e l’eredità sono temi cari all’autrice del romanzo, che Payne ha saputo sottolineare. Il film mescola amore, rabbia, incomprensioni, mai odio.
Il sentimento che Payne ha voluto far prevalere su tutti è stato l’amore che tutti i personaggi nutrono per questa moglie e madre, mettendo da parte ogni impulso egoistico e facendo la cosa giusta.
Effettivamente sono in pochi i mariti che agirebbero come Matt King, certamente è un comportamento auspicabile, data la situazione in cui si trova la moglie, difficilmente, però, si concretizza nella realtà della vita.

Ciò a cui il regista si è dedicato particolarmente è stato mettere in evidenza il contrasto tra la vita problematica di Matt King e il suggestivo ambiente naturale in cui vive. Le Hawaii sono state una scelta ben precisa e ponderata, al regista piacciono quei film che vengono caratterizzati dal luogo in cui si svolge la storia, divenendone parte integrante. Il direttore della fotografia Phedon Papamichael ha catturato la bellezza e la natura dell’ambiente in cui Matt è immerso, così tanto da far capire il conflitto interiore riguardo alla vendita della terra.
È prima di tutto la storia di un uomo e della sua maturazione riguardo ad alcuni aspetti della propria vita con cui finora non aveva fatto i conti. Se inizialmente lo si vede un uomo di mezza età confuso e in crisi con se stesso e con i suoi cari, in seguito riesce a fare chiarezza nel suo cuore e nella sua vita.
Non ha il tempo di piangere sua moglie, deve essere forte e padrone di sé per le sue due figlie e non perde la sua auto-ironia neanche nei momenti difficili.

Agli sceneggiatori è stato chiesto di fondere umorismo e pathos. Entrambi sono ben coniugati nel protagonista. Si può dire che il film poggia tutto sulle spalle del bravo George Clooney. In effetti laddove la storia appare comune e i personaggi di contorno sono perlopiù accennati, la performance di Clooney fa la differenza.
Si ha la sensazione che regista e sceneggiatori si siano dedicati in particolar modo ad approfondire il personaggio di Matt, il suo spettro interiore e il rapporto con i suoi avi, tutto il resto contribuisce, ma non è determinante, all’esito finale.
“Paradiso Amaro” non sarà percepito da tutti nello stesso modo: ci sarà colui che si identificherà con alcuni comportamenti messi in atto e chi non li riterrà credibili, anzi criticabili, ma rimane un film che farà discutere, confrontarsi e riflettere su argomenti che si tende a non considerare.

War Horse (2012)




War Horse
Titolo originale: War Horse
USA: 2011. Regia di: Steven Spielberg Genere: Drammatico Durata: 146'
Interpreti: Jeremy Irvine, Peter Mullan, Emily Watson, David Thewlis, Benedict Cumberbatch, Stephen Graham, Tom Hiddleston, Niels Arestrup, Celine Buckens, David Kross, Patrick Kennedy, Rainier Bock, Nicolas Bro, Leonard Carow, Robert Emms, Rainer Bock, Pauline Stone, Irfan Hussein
Sito web ufficiale: www.warhorsemovie.com
Sito web italiano:
Nelle sale dal: 17/02/2012
Voto: 7
Trailer
Recensione di: Nicola Picchi
L'aggettivo ideale: Favolistico

L’agricoltore Ted Narracott, pur trovandosi in difficoltà economiche, acquista un puledro alla fiera del paese. Nonostante l’opposizione della moglie Rose, il cavallo viene affidato al figlio Albert, il quale si occupa di domarlo e di addestrarlo al duro lavoro dei campi.
Tra il ragazzo e Joey, tale il nome del puledrino, nasce un rapporto intenso fatto di affetto e comprensione, ma allo scoppio della I Guerra Mondiale, Ted si trova costretto a vendere Joey al capitano Nicholls, un ufficiale di cavalleria in procinto di partire per il fronte.

La scommessa del romanzo “War Horse” di Michael Morpurgo, già trasposto con grande successo per il teatro, era quella di narrare gli avvenimenti dal punto di vista di un cavallo.
Idea non nuova, se si pensa che era già stata adottata in un classico anglosassone della letteratura per ragazzi, “Black Beauty” (1878) di Anna Sewell, trasposto innumerevoli volte al cinema e in televisione.
Ma se il cavallo vittoriano narrava in prima persona disavventure tutto sommato ordinarie, dalla nascita in una fattoria inglese alla vita grama condotta alle dipendenze dei vetturini di Londra, il Joey di Morpurgo vive esperienze ben più straordinarie, attraversando le tempeste d’acciaio della I Guerra Mondiale. Al cinema si era già tentato qualcosa di simile con “Au hasard Balthazar” (1966) di Robert Bresson, pessimistica riflessione sul male che adottava la prospettiva dell’asino Balthazar: un realistico ritratto della miseria umana, reso ancora più desolante dall’innocenza dell’animale.

Steven Spielberg preferisce evitare le complicazioni legate al punto di vista e richiamarsi alle versioni cinematografiche di “Black Beauty”, optando per una favola che ha il sapore del cinema di una volta, densa di rimandi sia pittorici che cinematografici. Nel calderone spielberghiano finisce di tutto un po’: la pittura paesaggistica di John Constable, evocata nella stupenda fotografia di Janusz Kaminski, la forza e la potenza dei cavalli di George Stubbs, insigne “ritrattista” equino, ma anche “Via col Vento”, esplicitamente citato in due sequenze, e naturalmente un pizzico di John Ford (“Un uomo tranquillo”).
Elementi così eterogenei sono amalgamati con la classe e la tempra del grande narratore popolare, che non teme di apparire ingenuo, trovando anzi nella propria naïveté motivo d’orgoglio.
“War Horse” appartiene a quella tipologia di film che una volta si sarebbero definiti per “ragazzi”, quelli che gli odierni uffici stampa definiscono “young adult” perché gli sembra una definizione più entusiasmante. Ma di quali ragazzi si parla, poi? Di quelli di oltre mezzo secolo fa, dell’età di Spielberg, cresciuti con un cinema “bigger than life” e sfacciatamente sentimentale, ormai estinto.

Separato da Albert, Joey passa di mano in mano, inaugurando una sorta d’inedita odissea equina. Allo stesso tempo attraversa le esperienze più diverse, rispecchiando la realtà storica di un’epoca in cui si utilizzavano ancora i cavalli durante le guerre. Inizialmente è acquistato da un ufficiale britannico, poi agevola la fuga di due disertori dell’esercito tedesco; in seguito viene ritrovato da una ragazzina francese e da suo nonno, per essere di nuovo requisito dall’esercito tedesco e ritrovarsi nel carnaio della battaglia della Somme.
Joey è il filo conduttore della narrazione, e gli sceneggiatori Lee Hall e Richard Curtis costruiscono una struttura forzatamente episodica. Abbandoniamo i protagonisti di una storia per passare al galoppo (è il caso di dirlo) a quelli della successiva, sfogliando i capitoli come in un libro di fiabe, popolato di personaggi archetipici: malvagi proprietari terrieri, agricoltori dal passato glorioso, bambine cagionevoli, nonni apprensivi, ufficiali adamantini e soldati dal cuore d’oro.

“War Horse” richiede allo spettatore di abbandonare ogni riserva, regredire all’infanzia e lasciarsi andare al piacere del racconto, mentre Spielberg elabora sequenze magistrali, quali la carica di cavalleria o la corsa impazzita di Joey nelle trincee, affidandosi a un cast che ha del miracoloso.
Da Emily Watson a Peter Mullan, fino allo straordinario Niels Arestrup (Il Profeta) e all’esordiente Jeremy Irvine, bisogna sottolineare come si tratti non solo di attori efficacissimi, ma anche puntuali per fisiognomica rispetto alla tipologia rappresentata.
Resta da chiedersi come mai due grandi registi come Spielberg e lo Scorsese di “Hugo Cabret”, escano quasi in contemporanea con due film apparentemente indirizzati agli adolescenti, più elitario e stratificato quello di Scorsese, più popolare e sentimentale quello di Spielberg, ma entrambi accomunati dal fatto di rivolgersi a una tipologia di pubblico del tutto immaginaria, che oggi nutre interessi assai diversi.

…E ora parliamo di Kevin (2011)

Tilda Swinton: Eva
John C. Reilly: Franklin
Ezra Miller: Kevin

Regia: Lynne Ramsay
Soggetto: Lionel Shriner, Lynne Ramsay
Sceneggiatura: Rory Kinnear
Fotografia: Seamus McGarvey
Musiche: Jonny Greenwood
Montaggio: Joe Bini
Scenografie: Judy Becker




Eva  è una giovane donna in carriera che mette da parte tutte le proprie ambizioni professionali per ritirarsi alla vita di provincia col marito Franklin ed il figlio Kevin. Proprio l’innaturale costrizione, cui si sottopone la donna, determinerà l’istaurarsi di un rapporto profondamente conflittuale tra lei ed il piccolo, già dai primi mesi trascorsi nella culla. Col passare degli anni, le cose non faranno altro che peggiorare, dinanzi agli occhi ignari di Franklin, l’unico apparentemente in grado di rapportarsi al giovane, e a quelli innocenti della secondogenita Celia.

Per il suo terzo lungometraggio, la regista britannica Lynne Ramsay si immerge tra le pagine del romanzo di Lionel Shriner “Dobbiamo parlare di Kevin”, riducendo per il Grande Schermo una vicenda d’intensità estrema. È una tragedia quotidiana, di quelle che fanno da protagonista al notiziario delle 6 ma di cui si conoscono poco i meccanismi. È un percorso nell’universo femminile e nel miracolo della creazione, sondato in tutta la sua problematicità e responsabilità; è la storia d’una maternità conflittuale, di un bambino muto,  di un giovanotto disubbidiente, di un adolescente ribelle. Un amore diventa odio, una persona diventa mostro, e ciò che rimane sono due vite spezzate e tanto sangue da lavar via, dalle mani e dalle coscienze.
Se il racconto orchestrato dalla regista appare così vivido ed intenso, il merito spetta anche a Seamus McGarvey, Joe Bini e Jonny Greenwood, rispettivamente  direttori della fotografia, del montaggio e del commento sonoro: tutto intorno ad Eva è volutamente immerso in un bianco candore, in stridio col rosso che tempesta le inquadrature, in un reiteramento che colpisce lo stomaco permettendoci di non dimenticare mai la sofferenza ed il senso di colpa che dominano tutto il girato.
Discorso a parte vale per l’eccellente cast. Dopo qualche prova meno qualitativa, ritrova tutto il talento Tilda Swinton, responsabile d’una prova matura ed eccellente. Catalizza tutta l’attenzione su di se l’attrice britannica, permettendoci di scorgere solamente tutta la bravura della sua controparte in scena, il giovane Ezra Miller, di sicuro un altro dei protagonisti del Grande Schermo del domani. Le loro interpretazioni, sottoposte all’attenta direzione della Ramsay,  lasciano poco spazio alle parole ma liberano un cinema drammatico di pregevolissima fattura.

Presentato al Festival di Cannes, prima, e al Toronto International Film Festival, poi, “…E ora parliamo di Kevin” si aggiudica il premio al miglior film al London Film Festival 2011 ed al London Critics Film Awards 2012, mentre a Lynne Ramsay spetta il premio del British Independent Film Awards 2011.

VOTO 8/10
Marco Fiorillo
Pier Lorenzo Pisano

Tre Uomini e una Pecora (2012)

Xavier Samuel: David Locking
Laura Brent: Mia Ramme
Kris Marshall: Tom
Kevin Bishop: Graham
Tim Draxl: Luke
Olivia Newton-John: Barbara Ramme

Regia: Stephan Elliott
Sceneggiatura: Dean Craig
Musiche: Guy Gross
Montaggio: Sue Blainey




In vacanza ai Tropici, il londinese David e l’australiana Mia si innamorano e decidono di sposarsi. Il matrimonio avverrà però in Australia, presso la villa del padre di Mia, il Senatore Ramme: David, perduti i genitori, parte alla volta di casa Ramme insieme a Tom, Graham e Luke, tre amici divenuti la sua nuova famiglia. Dividendosi tra l’addio al celibato organizzato dai tre giovani e la presenza dell’autorevole Senatore, David dovrà fare in modo che nulla si frapponga tra lui e l’altare.

Muovendosi tra vicende “hangoveriane” al limite del possibile e una precisa macchinazione di imprevisti da commedia matrimoniale all’inglese, il regista australiano Stephan Elliott porta sul Grande Schermo l’ennesima pellicola coniugo-adolescenziale. Un ragazzo innamorato, una ragazza benestante dalla famiglia austera, un gruppo di amici goliardici e guastafeste, un lieto fine scontato all’inverosimile. Insomma, niente di nuovo: ad Elliott rimane il merito di riuscire a divertire nonostante le poche pretese di originalità.

Tra gli attori che affiancano il protagonista Xavier Samuel, famoso soprattutto per la sua partecipazione al terzo capitolo della saga cinematografica “The Twilight Saga- Eclipse”, merita menzione Olivia Newton-John, cantante ed attrice australiana, meglio conosciuta dal pubblico italiano come Sandy Olsson, protagonista dello storico “Grease”. Di Elliott, invece, ricordiamo “Priscilla la Regina del Deserto” ed “Un Matrimonio all’inglese”, realizzato dopo la lunga riabilitazione seguita all’incidente quasi mortale che lo vide protagonista sulle piste da sci francesi, nel 2004.

VOTO 5/10
Marco Fiorillo
Pier Lorenzo Pisano