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sabato 16 luglio 2011

Il Signore degli Anelli (1978)

Ciclo "Per non dimenticare": Ritornare bambini...


Regia: Ralph Bakshi

Soggetto: J. R. R. Tolkien

Sceneggiatura: Chris Conkling, Peter S. Beagle

Art Director: Madlyn O’Neill

Fotografia: Timothy Galfas

Effetti Speciali: James W. Riley

Musiche: Leonard Rosenman

Scenografie: Madlyn O’Neill

Produttore: Saul Zaentz


Prima dello scoppio della “Tolkien- mania”, prima del successo mediatico e del merchandising, l’universo partorito dallo scrittore britannico fu un lungometraggio d’animazione destinato a piccini e non, già testimone del fondamentale ruolo di quella cassa di risonanza, che è il cinema.

La storia ha inizio con la creazione degli Anelli: tre furono donati agli Elfi, sette ai Nani e nove agli Uomini. Tutti loro, però, furono ingannati: in segreto, il malvagio Sauron aveva forgiato un anello in grado di sopraffare il potere di tutti gli altri. Una dura battaglia fu combattuta per difendere la libertà dei popoli della Terra di Mezzo: Isildur, figlio del Re degli uomini, riuscì a sopraffare Sauron, impossessandosi dell’anello sovrano. Tuttavia, il potere dell’anello sopraffaceva ogni padrone che non fosse il suo creatore: il monile attraverso, così, le ere del tempo, attendendo paziente il ritorno del suo vero possessore. Raggiunse le grinfie di un “mezz’uomo”, lo hobbit Smeagol: l’anello lo consumò, cambiò i suoi tratti e il suo carattere, lo sfigurò in un mostro dal nome Gollam, fino a quando non scelse un altro portatore, lo hobbit Bilbo Baggins.

Per anni, l’anello rimase nella contea Baggins, fin quando Bilbo non lasciò la sua casa, lasciandolo al nipote Frodo Baggins, come suggeritogli dall’amico e stregone Gandalf. Diciassette anni dopo, Frodo fu raggiunto dallo stesso Gandalf che lo informò della necessità della sua immediata partenza: il malvagio Sauron aveva scovato l’anello e si preparava a recuperarlo. Frodo partì, così, alla volta di Brea, insieme al fidato Sam ed ai cugini Peregrino Tuc e Mariadoc Brandibuck. Al piccolo villaggio, dove avrebbero dovuto incontrare Gandalf, incontrano il ramingo Aragorn, della casa di Isildur, che li salva dall’arrivo dei Cavalieri Neri, servi di Sauron. Il gruppo riparte, questa volta per raggiungere Collevento: qui, vengono nuovamente attaccati dai Cavalieri, che riescono a ferire Frodo. Lo hobbit viene repentinamente scortato presso Gran Burrone, reame di Elrond, Signore degli Elfi, dall’accorrente Legolas, un elfo amico di Aragorn.

A Gran Burrone, un concilio dei popoli della Terra di Mezzo dà vita alla Compagnia dell’Anello, avente il compito di condurre l’anello tra le fiamme del Monte Fato, l’unico luogo dove può essere distrutto. I quattro hobbit, vengono affiancati, così, da Aragorn, Gandalf, Legolas, Gimli il nano e Boromir, figlio del Re di Gondor. Il cammino della Compagnia, fitto di pericoli ed ostacoli, porta nelle miniere di Moria, dove perde la vita lo stregone Gandalf, nel combattimento con un demone Balrog. Dopo il successivo passaggio per il reame della Dama Galadriel, Signora degli Elfi, la Compagnia si disgrega: Frodo e Sam continuano solitari il viaggio verso Mordor, Merry e Pipino vengono catturati da un gruppo di orchi, colpevoli anche della morte del prode Boromir, mentre Aragorn, Legolas e Gimli partono all’inseguimento del gruppo di orchi.

Frodo e Sam fanno la conoscenza del viscido Gollam, che, ancora sottomesso al potere dell’anello, accetta di guidarli verso i cancelli di Mordor. Intanto, Aragorn, Legolas e Gimli, impegnati nella ricerca degli altri due hobbit, sfuggiti agli orchi e scappati nella foresta di Fangren, si imbattono in Gandalf, che rivela loro di aver vinto il Balrog in una battaglia furente. I quattro raggiungono, così, la casa di Re Theoden, il Regno di Roan: il Re viene prontamente sottratto alle grinfie di Grima Vermilinguo, servo di Sauron, e riportato alla ragione da Gandalf. Lo stregone mette il “ritrovato” Re al corrente dell’imminente attacco che Sauron sta preparando al suo Regno; suggerisce, quindi, l’idea di concentrare le forze nel Fosso di Helm, roccaforte di Roan. Segue la battaglia presso il Fosso, tra gli orchi di Sauron e gli uomini di Theoden. L’esito dello scontro è deciso dall’arrivo di Gandalf e di Eumer, nipote di Theoden, alla testa dei cavalieri di Roan: le forze di Sauron vengono sconfitte.

Unico rifacimento animato della fortunatissima opera di John Ronald Reuel Tolkien, “Il Signore degli Anelli” è la seconda opere cinematografica tratta dall’omonima serie di romanzi. Preceduta da “Lo Hobbit”, film per la televisione del 1977, viene considerata come la prima parte del successivo “Il Ritorno del Re”, anch’esso destinato al piccolo schermo, datato 1980, tuttavia le due pellicole non sono mai state ufficialmente collegate tra loro.

Il progetto deve la sua nascita a Saul Zaentz, “signor produttore” degli anni ’70-’80, che, dopo svariate ricerche, trovò in Ralph Bakshi la sua controparte tecnica. Si devono, appunto, al regista israeliano di adozione newyorkese, le scelte che caratterizzano la pellicola, ora positive ora negative. I fulcri della sua concezione dell’animazione cinematografica trovano ampia realizzazione ne “Il Signore degli Anelli”: la caratteristica presenza di scene “reali” girate con attori in carne ed ossa, il perfetto utilizzo del rotoscopio e la sapiente mistione di estetica e contenuti , spesso denunciatori, si innestano perfettamente nella pellicola. Ciò che fa storcere il naso è, più che altro, la concezione del progetto in sé. In particolare, l’idea di Bakshi prevedeva la ripartizione della storia in due film, come dimostrava il titolo originale “The Lord of the Rings- Part one”. L’utilizzo del titolo che chiarisse tale continuità fu scartata dalla produzione, che comunque prevedeva, inizialmente, la realizzazione di una seconda pellicola: la previsione non fu portata a realizzazione, dato lo scarsissimo successo di pubblico riscosso dall’opera di Bakshi. A ciò va aggiunto l’estenuante durata del girato , palesemente in contrasto con il format e con la destinazione: si tratta pur sempre di un film d’animazione, i cui fruitori sono principalmente i più piccoli, ai quali “sopportare” più di due ore di film sarà risultato veramente difficile, considerando anche l’importanza contenutistica dell’opera di Tolkien.

La pellicola riscosse elevato successo di critica e Bakshi fu premiato col Grifone d’oro, al Giffoni Film Festival: un successo che non risultava insolito, considerata l’elevata qualità dell’animazione, realizzata da un staff che vantava, tra gli altri, un giovanissimo e semisconosciuto Tim Burton. Inoltre, checché si dica circa il successo mediatico, il botteghino segnò, comunque, risultati più che positivi: 30 milioni di incasso a fronte dei soli 4 milioni di produzione.

Nonostante il successo di critica, è un’opera che, attualmente, convince poco, probabilmente a causa dell’influenza stabilita dalle trasposizioni cinematografiche di Peter Jackson che ne impediscono la piena godibilità.

VOTO 5/10

Marco Fiorillo

Pier Lorenzo Pisano

mercoledì 13 luglio 2011

Transformers-Dark of the Moon (2011)

Shia La Beouf: Sam Witwicky

Rosie Huntington- Whiteley: Carly Brooks Spencer

Josh Duhamel: Colon. William Lennox

John Turturro: Seymour Simmons

Tyrese Gibson: Robert Epps

John Malkovich: Bruce Brazos

Patrich Dempsey: Dylan Gould

Glenn Morshower: Gen. Morshower

Alan Tudyk: Dutch

Frances Mc Dormand: Charlotte Mearing

Julie White: Judy Witwicky

Kevin Dunn: Ron Witwicky

Ken Jeong: Jerry

Buzz Aldrin: Buzz Aldrin (oggi)

Cory Tucker: Buzz Aldrin (1969)

Don Jeanes: Neil Armstrong (1969)

Regia: Michael Bay

Soggetto: Ehren Kruger

Sceneggiatura: Ehren Kruger

Produttore Esecutivo: Steven Spielberg, Michael Bay

Musiche: Steve Jablonsky


Michael Bay cuce sulle stelle e sulle strisce il simbolo dei suoi automi hollywoodiani, bissando il già evidente successo “modaiolo”, raggiunto con le pellicole precedenti della serie. Gli ingredienti messi nel pentolone dal regista: azione al limite della spettacolarità e una buona dose di ironia.

Gli Autobot hanno, ormai, ottenuto la “cittadinanza terrestre”: al servizio delle forze armate americane, hanno messo a disposizione del genere umano la loro tecnologia e la loro lealtà. Una lealtà che voleva solo altra lealtà in cambio: un corrispettivo cui l’uomo non sembra ancora pronto. Optimus Prime, il leader degli Autobot, viene a conoscenza di una verità tenuta nascosta per anni. Il primo allunaggio di Neil Armstrong, nel 1969, non aveva come scopo il solo raggiungimento scientifico: il vero obiettivo di Nixon e Kennedy era raggiungere un’astronave caduta sul satellite, dove viene rinvenuto il primo Autobot, insieme ad una sconosciuta tecnologia aliena. Nel transformer, Prime riconosce l’antico leader Sentinel Prime, nella tecnologia i pilastri che avrebbero portato a cessazione la guerra che infuriava su Cybertron, tra gli stessi Autobot ed i Decepticon, guidati da Megatron. Nella scoperta, Prime vede il tradimento del genere umano e si attiva immediatamente per ripristinare la vita di Sentinel. Purtroppo, sia gli Autobot che gli umani non conosco la trama segreta ordita all’ombra del ritrovamento: si ritroveranno ad affrontare una battaglia, in cui la posta in palio è la vita del Pianeta Terra.

Con “Dark of the Moon”, Bay e Spielberg portano a termine l’epica trilogia delle macchine aliene, mettendo capo all’episodio più spettacolare della saga. Come già accennato, il segreto del successo della pellicola è la coesistenza di un’ironia velata ma costante e di una presa visiva unica, capace di impressionare anche nella versione 2D. Il tutto immerso in una narrazione semplice e, quindi, adatta al progetto tutto, incentrato sulla raffigurazione estetica più che sul contenuto: l’interessante revisione della passeggiata lunare del ’69 cede immediatamente il posto ad un ritmo narrativo troppo concitato e prevedibile. Un trend che, tutto sommato, non dispiace, nella sua coerenza e continuità. La direzione registica, l’elaborazione concettuale e la realizzazione visiva dei protagonisti meccanici ed una gradita colonna sonora permettono allo spettatore di non annoiarsi mai, nonostante le tre ore di durata. Considerato il format, l’unica pecca che vale la pena menzionare riguarda l’eccessivo e mal celato patriottismo: implicito nei colori del capo degli Autobot, Optimus Prime, esplicito in alcune sue battute, in particolare nelle parole che chiudono la pellicola.

Tra i clangori metallici dei robotici alieni, ritroviamo volti conosciuti e accogliamo nuovi interpreti. Shia La Beouf veste nuovamente i panni di Sam Witwicky, giovane aiutante di Prime e compagni; al suo fianco, però, non troviamo più la sensualissima Megan Fox ma Rosie Huntington- Whiteley: smentite le voci riguardanti un abbandono spontaneo del progetto, è stato confermato che la Fox fu licenziata da Bay, su esplicita richiesta di Spielberg, a seguito di un’intervista” poco cortese” circa la direzione registica della pellicola; a sostituirla, la modella di Victoria’s Secrets, già diretta da Bay in uno spot della nota marca di intimo. Attorno a loro, ritroviamo Josh Duhamel, John Turturro e Tyrese Gibson ed accogliamo Frances Mc Dormand e Patrick Dempsey, reduce del grande successo del telefilm Grey’s Anatomy. Su tutti, spicca la breve partecipazione di John Malkovich.

In un momento in cui, la sfrenata ricerca dell’ “idea” si conclude puntualmente in annunciati fallimenti, Bay e co. cavalcano l’onda di quella moda che vuole il cinema semplice esperienza sensoriale, rinnovando apertamente la finalità del progetto, il puro intrattenimento. Una linea che, nella sua coerenza, non dispiace affatto.

VOTO 6 ½ /10

Marco Fiorillo

Pier Lorenzo Pisano

Karate kid (1984)

Ciclo "Per non dimenticare": Ciak si combatte


Ralph Macchio: Daniel La Russo

Noryuki Pat Morita: Maestro Kesuke Miyagi

Elisabeth Shue: Ali Mills

Martin Kove: Sensei John Kreese

William Zabka: Johnny Lawrence

Randee Heller: Lucille La Russo

Bruce Malmuth: Annunciatore

Regia: John G. Avildsen

Soggetto: Robert Mark Kamen

Sceneggiatura: Robert Mark Kamen

Fotografia: James Crabe

Musiche: Bill Conti, Gang of Four


Un maestro ed un allievo, due mondi lontani uniti dalla disciplina del karate e dall’affetto di una profonda amicizia. Una pellicola che è leggenda, mattone inviolabile della grande casa del cinema.

Cambiare città, cambiare vita è un passaggio che consta sempre di molte difficoltà: lo impara a proprie spese il giovane Daniel La Russo (Ralph Macchio) che dalla dimora di Newark, si trasferisce con la madre Lucille (Randee Heller) nell’afosa California. Nonostante l’ottimo rapporto con la madre e una piacevole e repentina conoscenza, la nobil- ragazza Ali (Elisabeth Shue), Daniel non manca di conoscere subito l’accoglienza dei ragazzi californiani: entra in conflitto con un gruppo di violenti karateki del dojo Cobra Kai, guidati dal bullo Johnny Lawrence (William Zabka) e avviati all’arte marziale dal Sensei Kreese (Martin Kove). Le rivalità tra Johnny e Daniel si acuiscono sempre di più, soprattutto a causa della tenera vicinanza del nuovo arrivato alla bella Ali. Daniel, che pure conosce il karate, non può continuare a sopportare le continue angherie di Lawrence e compagni da solo. Giunge in suo aiuto il venerando Miyagi, insolito maestro di karate, che vede nel giovane il giusto ricettore della sua conoscenza: le tecniche di combattimento sono solo una minima parte degli insegnamenti che riceverà “Daniel San” dall’amico e maestro Miyagi.

Primo capitolo della storica tetralogia del “ragazzo del Karate”, si tratta di una pellicola che fa la storia del cinema, proponendosi come modello anche per le successive generazioni di “operatori cinematografici”. Il progetto nasce dalla volontà del regista Avildsen di proporre una versione adolescenziale della “storia del combattente”, ispirandosi a quel fortunatissimo “Rocky”, che aveva personalmente diretto otto prima.

Così Avildsen, coadiuvato dall’ottimo Kamen, si serve di elementi semplici, dal potere evocativo diretto. Porta sulla scena due caratteri tradizionali e rappresentativi: il saggio Maestro nipponico, custode di una tradizione millenaria fatta di rispetto ed umiltà, ed il giovane americano, con i suoi problemi ed i suoi divertimenti: un’ispirazione, molto probabilmente, per quel “Marti Mc Fly” agli ultimi mesi di gestazione. Inserisce i suoi protagonisti in una trama lineare, arricchita da significative contrapposizioni: una superficiale denuncia alle differenze sociali di provenienza familiare e locale, cede il passo alla forte contrapposizione tra il karate occidental- commerciale di Kreese/ Kove e la cultura di Miyagi, che ha fatto del karate il modo di intendere la vita. Ma forse la lontananza che maggiormente viene avvertita, è quella generazionale tra i due protagonisti: i drammi adolescenziali del giovane Daniel/ Macchio incontrano la saggezza del Maestro, in un’amicizia che sfiora la commozione.

Il tutto viene impreziosito da una colonna sonora perfettamente inserita nel tessuto narrativo e da una fotografia eccellente: se Bill Conti, reduce anch’egli dal successo di “Rocky”, riesce ad infondere nella sua orchestra l’esigenza di unire le note occidentali e quelle orientali, mettendosi pienamente al servizio delle direttive di Avildsen, James Crabe, Direttore della Fotografia, mette capo ad immagini rimaste nella memoria di fan come di spettatori meno voraci: basti citare l’ombra di Miyagi/Morita, impressa nell’atto di eseguire la tecnica della gru nel disco solare calante oltre la linea dell’orizzonte.

Devono alla saga l’ingresso nella Hall of Fame hollywoodiana, Ralph Macchio e Pat Morita: sembra, tuttavia, ingiusta la comune tendenza ad associare i loro nomi esclusivamente a “Daniel San” e al “Maestro Miyagi”. Al loro fianco, spicca la giovane e bella Elisabeth Shue: la sua successiva partecipazione al secondo episodio della trilogia de “Ritorno al Futuro”, permette di confermare la teoria che considera le due saghe vera rappresentazione di un’epoca.

Come il venerando Maestro karateka, Avildsen fa professione di equilibrio, bilanciando perfettamente le temperie degli anni ’80 e l’elevata qualità della rappresentazione sullo schermo: dispiace ricordare che le lodi del film siano state tessute solo a parole.

VOTO 8/10

Marco Fiorillo

Pier Lorenzo Pisano