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lunedì 23 maggio 2011

The Tree of Life (2011)


Brad Pitt: Mr. O’Brien
Sean Penn: Jack
Jessica Chastain: Miss. O’Brien
Fiona Shan: Nonna O’Brien
Kari Matchett: ex compagna di Jack
Joanna Going: moglie di Jack
Regia: Terrence Malick
Sceneggiatura: Terrence Malick
Fotografia: Emmanuel Lubezki
Musiche: Alexandre Desplat

“The Tree of Life” si apre con una citazione della bibbia, quasi pascaliana, che recita pressappoco questo concetto: “L’uomo non è niente”, e dà un’importante indicazione sul binario che seguirà il film, introducendoci in un’atmosfera (anche visivamente) mistica e riflessiva. Subito dopo una morbida voce femminile snocciola postulati sulla vita nell’universo.
Fratello e Madre, la via della Natura e la via della Grazia. Non c’è un protagonista definito della vicenda, o meglio c’è ma si confonde nella moltitudine delle molteplicità dell’universo. Ogni singola goccia dell’oceano è parte integrante della storia.

Un lutto improvviso colpisce una famiglia degli anni 50: la morte di uno dei tre figli. Il ricordo della tragedia oscura tutti i rumori del mondo esterno e lascia ai personaggi solo il vento della loro angoscia interiore, e questa è una prima caratteristica del film: i suoni e le musiche hanno un importantissimo significato ai fini della comprensione della pellicola, sono percepiti in maniera soggettiva, a seconda di chi ascolta.

Durante i primi minuti del film, i personaggi principali, la madre (Jessica Chastain), il padre (Brad Pitt) ed i due figli, non sono mai ripresi in volto ma sono accompagnati da inquadrature spesso storte e angolate dal basso o dall’alto. Anche questa è una caratteristica del film: le inquadrature accompagnano i personaggi a seconda della loro altezza (i bambini) o della loro visione del mondo, o per sottolineare come la vicenda sia un racconto interiore. La natura fa parte del racconto ed i personaggi fanno parte della natura, quindi non serve inquadrarli con precisione, è tutto una sorta di sogno sfocato ad occhi aperti, fuori dal tempo.

Le preghiere rivolte a Dio dalla madre, la prima battuta del padre “Stiamo bene”, le massime tanto vere quanto spietate di una donna che cerca di confortare la famiglia, il silenzio, i tenui suoni della natura, delle foglie mosse, il fratello perduto idealmente rappresentato da un cero blu (il colore della pace). Poi un salto nel futuro, dove il figlio maggiore, (Sean Penn), è cresciuto ed è realizzato, ma i ricordi si sovrappongono costantemente alla realtà, visivamente o acusticamente. Il passato diventa un tempo rimpianto ed irraggiungibile, il candore del fratello simbolo di perfezione. Questa è un’altra cifra del film: la sovrapposizione, di suoni, immagini, concetti, ricordi, parole. Come il ricordo delle prime domande sul senso della vita, sul senso dell’ingiustizia nel mondo: “Signore perché? Dov’eri?” e altre ingenue riflessioni esistenziali si affollano mentre sullo sfondo sfila Dio e la sua magnificenza multicolore di galassie, accompagnato dalla musica delle sfere celesti. Una serie di immagini che compongono l’insieme. Ma in questo caso l’insieme è l’universo stesso.

Il film sembra fare sua una massima che potrebbe considerarsi la chiave di lettura della pellicola: “Se volessimo preparare una torta di mele partendo da zero, dovremmo prima inventare l’universo”(Carl Sagan). Questo è il maggior pregio ed il maggior difetto del girato: le immagini che si susseguono sullo schermo vanno dalle cellule più infinitesimali alle galassie più aliene, ci mostrano l’infinita complessità e vastità dell’universo, l’inimmaginabile piccolezza dell’uomo e delle sue sorti, l’occhio di Dio. Il film cerca di abbracciare e contenere Dio stesso al suo interno, e per poterlo apprezzare appieno bisogna lasciarsi andare, stare al gioco e credere che l’infinito sia li davanti a noi, racchiuso in una pellicola. Metafisico, estetico, un piacere per gli occhi, un’opera sicuramente ambiziosa, forse troppo, ma comunque coraggiosa.

Un altro grande pregio del film, dato dalle caratteristiche tecniche sopracitate, è la grande immedesimazione che crea con il personaggio del bambino maggiore, di cui sappiamo tutto: lo abbiamo osservato sin dalla creazione della vita, fino alla sua nascita. Abbiamo sorriso vedendo la sua infanzia, senza parole, magica e colorata da canzoni gioiose. Abbiamo scoperto come lui vedesse il padre: solo due mani e una voce imperiosa che scende dall’alto.

Crescendo i suoni indistinti fanno sempre più spazio al dialogo ed apprendiamo del rapporto contrastato col severissimo padre che proietta tutto quello che avrebbe voluto essere nei suoi figli che invece vorrebbero somigliare alla madre, che sprizza bontà, ingenuità e amore, valori semplici e condivisibili.

Il padre, che ha soffocato le sue passioni (la musica) e che vive rincorrendo l’illusione di poter un giorno essere un “grande uomo”, cresce i figli con disciplina inflessibile, ottenendo il loro odio, e creando in loro insofferenza verso il mondo degli adulti, ma raggiungendo anche il suo scopo: i due fratelli parlano attraverso le frasi paterne, e il fratello maggiore lo supera, essendo in grado di rinfacciargli i suoi errori nei loro confronti e nei confronti della madre.

La partecipazione e la graduale immedesimazione col personaggio del fratello maggiore è sconcertante, arrivando a farci comprendere il suo stesso modo di ragionare e la sua costruzione mentale del mondo. Lo spettatore padroneggia il “soggettivo”, proprio quello che era stato definito dal padre “quello che puoi dimostrare solo tu”.

Da sottolineare anche il valore delle interpretazioni: la madre, quasi un angelo: “Amate tutti, perdonate”, “L’unico modo per essere felici è amare: se non ami, la tua vita passerà in un lampo”, frase che si concretizza nella figura del padre che solo tardi realizzerà la bellezza della natura ed il tempo che ha perso a non apprezzare ciò che già aveva. Il figlio minore, che sonda il mondo con la sua mano e che, più simile alla madre, esprime fiducia verso tutti. Il figlio maggiore, che è diventato un “grande uomo” e vive tra i ricordi del fratello perduto.

In tutto il film spesso Dio è invocato, a chiedere spiegazioni del mondo, ma non risponde mai. Ma quando invece di invocare Dio, si invoca “Fratello. Proteggici. Guidaci. Fino alla fine dei tempi.” finalmente c’è una risposta. Il problema era nella domanda: non bisogna invocare l’esterno, l’universo, il tutto, ma, kantianamente, l’infinito dentro di noi, il nostro passato, il “Fratello”. Il fratello maggiore ormai cresciuto affronta il viaggio finale nella soggettività, le immagini si affastellano, il tutto è molto onirico ed ipnotico. Il “Fratello” si identifica anche nel sole, ed in effetti il sole è presente in tutta la pellicola, spesso i suoi raggi lambiscono i personaggi.

“The Tree of Life” è la trasposizione di un’estasi mistica, tenta di ricreare l’esperienza di Dio. Usciti dal cinema viene voglia di stare in silenzio e contemplare, le immagini continuano a tornarci in mente. Un film che non è destinato a rimanere in sala.

Voto:8/10

Pier Lorenzo Pisano
Marco Fiorillo

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